Non c’era anima del Signore che Geneva non fosse disposta a rifocillare.
La caffetteria era stata aperta con l’idea che, se i colored non potevano entrare in nessun altro locale della contea, be’, potevano sempre andare lì. Mangiare un buon pasto, magari farsi un goccio di whiskey, a patto di essere discreti; darsi una sistemata ai capelli prima di mettersi in viaggio verso nord, per raggiungere la famiglia o un posto di lavoro. Sperando non se lo fosse preso qualcun altro, il lavoro, nel tempo che ci si metteva a farsi tutto l’Arkansas. Perché uno faceva meglio a non partire nemmeno, se non se la filava oltre l’Arkansas. Erano passati più di quarant’anni da allora, le leggi Jim Crow erano state abrogate e la Grande migrazione afroamericana era terminata, ma non molto era cambiato; da Geneva’s il tempo si era fermato, come sui calendari ingialliti appesi alle sue pareti. Geneva era una costante al margine di un’autostrada che non smetteva mai di portare via persone lasciandola indietro.
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