Mio padre disse che i genitori si godono davvero i figli all’età che avevo io allora, poi calò l’asso di coppe e a mia madre la mossa non piacque. Si frugò tra le carte e sbuffò. Mi diede uno sguardo che io ricambiai senza slancio e disse che aveva perso, quindi raccolse le carte a mazzo per fare un’altra mano. Mio padre rise sguaiatamente. Adorava umiliarla. Nel gioco come in tutto il resto. Ma non ci faceva caso nessuno. Fare caso era da maleducati. E poi loro sorridevano sempre durante quelle partite.
La mia non era un’età che prendevi e te ne uscivi sbattendo la porta. Quello lo faceva mio fratello. La mia era un’età che, al massimo, ti rifugiavi in camera tua, ma poteva venire chiunque, in qualunque momento, a stanarti come un ragno dentro un buco. E tu dovevi uscire, uscire rapidamente, complice di un richiamo che non ti conferiva alcuna gioia e dovevi aderire alle proposte: si deve fare questo, sta per venire tizio, dobbiamo andare da caio.
Forse il godimento constava in questo: dominarmi completamente, dominare un altro essere umano fin nell’ultimo tassello della sua esistenza.
Sette di denari su sette di bastoni e poi scopa.
Li guardavo giocare a carte con il mento posato sulle ginocchia raccolte, seduta sulla sedia di paglia da cucina, quella sghemba, che andava un po’ di qua un po’ di là, come il mio pensare.
La mia non era un’età che si potevano dire i pensieri veri. I pensieri veri facevano ridere gli adulti che ti chiedevano di parlare ancora e ancora per poter restare divertiti da te. Godendoti, probabilmente.
Fu allora che appresi il muso. Musi lunghissimi, fino a terra e oltre. Il muso era il messaggio più chiaro e preciso che riuscissi a lanciare in quella mia età, senza dire una parola, senza spendere il mio pensare, senza esporlo al divertimento dei grandi.
Il muso mi faceva ricevere blandi rimproveri, scompigliamenti di capelli, fette di torta, ma non consentiva a nessuno di stanarmi. A volte lo arricchivo di un guardare basso. A volte restavo in questa condizione per ore, giorni, settimane. Silenziosa, implosa, inerme.
A volte mi scordavo di essere da sola, a volte mi scordavo di essere in loro compagnia.
Imparai anche a giocare a carte, in quella mia età, ma non ho mai giocato con nessuno.
Sempre in Mixtura, altri 2 contributi di Chiara Bottini qui
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