Ho ritrovato in archivio un mio articolo sulla "complessità organizzativa" che risale al 1984: all'epoca aveva avuto una certa diffusione, anche in ambito accademico, soprattutto tra gli studenti che seguivano corsi di sociologia dell'organizzazione.
Inoltre, la sua traccia mi è servita da sfondo per diversi anni in molti interventi seminariali rivolti a manager e professional.
Ho riletto il testo per la prima volta dopo oltre 25 anni.
Nella mia vita professionale, anche per accompagnare il mio mestiere di consulente e 'formatore', ho scribacchiato molto: e molto non merita di essere ricordato.
Nella mia vita professionale, anche per accompagnare il mio mestiere di consulente e 'formatore', ho scribacchiato molto: e molto non merita di essere ricordato.
Questo scritto ho deciso di non cestinarlo, ma addirittura di proporlo qui nel blog, perché mi pare conservi un certo valore.
Lo riscriverei praticamente tale e quale: perché l'analisi che viene sviluppata tocca un tema che non ha perso di criticità e alcune considerazioni, svolte per punti sintetici e talvolta anche radicali (per favorire una comprensione più netta), mi paiono più attuali che mai.
Sottolineo solo, per chi scopre oggi la 'questione-complessità', che almeno dalla fine degli anni 80 la discussione pubblica in proposito, in riviste, libri e convegni, era ampia: all'inizio dell'articolo, anzi, faccio dell'ironia sulla moda imperante che aveva fatto diventare chiacchiericcio il tema.
Sottolineo solo, per chi scopre oggi la 'questione-complessità', che almeno dalla fine degli anni 80 la discussione pubblica in proposito, in riviste, libri e convegni, era ampia: all'inizio dell'articolo, anzi, faccio dell'ironia sulla moda imperante che aveva fatto diventare chiacchiericcio il tema.
Riproduco qui sotto il testo in forma integrale e senza alcun rimaneggiamento, neppure formale.
° ° °
Immagino la reazione, appena scorso il titolo: ancora un articolo sulla “complessità“?
Già. Da qualche anno, la “complessità“ è fra noi. Si aggira fra le sale dei convegni e le pagine delle riviste più o meno specializzate. È nei nostri discorsi, nei nostri slogan. Tutto è “complessità“: la realtà in generale e le organizzazioni - le imprese - in particolare.
Già. Da qualche anno, la “complessità“ è fra noi. Si aggira fra le sale dei convegni e le pagine delle riviste più o meno specializzate. È nei nostri discorsi, nei nostri slogan. Tutto è “complessità“: la realtà in generale e le organizzazioni - le imprese - in particolare.
Il termine, ovviamente, è registrato da tempo nei dizionari, e anche l’uomo della strada, che non frequenta seminari e ha per solito un rapporto di assai scarsa dimestichezza con la carta scritta, vi aveva sempre fatto ricorso: usandolo se non altro come sinonimo, più o meno appropriato, di “cosa difficile“ e, soprattutto, “complicata“. Però nessuno, alla suddetta parola, aveva sinora pensato di fornire significato “scientifico“: per farla assurgere, addirittura, a “paradigma epistemologico“, così trasformandola in una faccenda, appunto, tanto “complessa“. Invece, è accaduto. Come peraltro è avvenuto per tanti altri termini che alimentano - troppo spesso - il nostro chiacchiericcio quotidiano, e nel regalarci un finto ma rassicurante sentimento di “adeguatezza“ ci confermano che apparteniamo al giro di coloro che, se non sanno, comunque sembrano sapere.
Eppure, battute a parte, la parola in questione merita rispetto: se la scoperchiamo, vi troviamo dentro contenuti di peso, sulle cui implicazioni soprattutto chi si occupa di organizzazioni non può fare a meno di svolgere qualche riflessione.
Il tentativo di queste pagine muove appunto in questo senso: intende ricordare, per sommi capi, alcune connotazioni del concetto di complessità, soprattutto riferite al mondo delle organizzazioni, e cogliere subito dopo le conseguenze “culturali“ che la nuova realtà entro cui siamo immersi induce su tutti noi.
La domanda, cioè, riguarda le risorse umane implicate nei processi di crescente “complessificazione”: quale cultura - quali modelli di valori e di comportamenti, ma anche quali capacità e competenze - è necessaria oggi, per gestire al meglio le nuove situazioni?
9 caratteristiche della 'complessità'
Apriamo dunque il contenitore e proviamo a tracciare alcune coordinate del problema “complessità“. L’esperienza diretta di ognuno, sommata con qualche lettura mirata sull’argomento, può soccorrerci. Per quanto mi concerne, mi sono annotato almeno 9 caratteristiche.
Do per scontato che non sono esaustive e non le presento classificate in ordine di importanza: nessuna da sola fa complessità, ma tutte insieme concorrono a determinarla.
Vediamole singolarmente.
Vediamole singolarmente.
(1) - Un primo elemento per definire “complessa“ una situazione è dato dal numero dei fattori che la producono. Ovviamente, più alto è il numero, maggiori sono le difficoltà di analisi e governo della situazione stessa.
(2) - Ulteriore componente di difficoltà è rappresentata dalla variabilità dei fattori in campo. Se le “variabili variano“, si determina, naturalmente, uno stato di movimento, cambiamento, effervescenza, che impone una lettura e una gestione della realtà più attenta, attiva e controllata.
(3) - Un altro concetto noto in letteratura è quello che fa riferimento alla “analizzabilità/strutturabilità” dei processi (Perrow). Processi fortemente analizzabili sono processi fortemente schematizzabili, procedurizzabili, codificabili: in cui domina la ripetitività e per i quali l’apprendimento è facile e immediato. La complessità nasce, al contrario, quando la ricostruzione di un processo è possibile solo per grandi linee: non si possono fissare le singole mosse, ma si è costretti a ricorrere a teorie, approcci, modelli, che ne illustrano la dinamica generale. Da una parte, la catena di montaggio; all’estremo opposto la ricerca, pura o applicata, oppure l’analisi e la formulazione di strategie.
(4) - Altra caratteristica di situazioni complesse è la provvisorietà, o l’evanescenza, delle regole: difficile individuarle, ma ancor più difficile considerarle eterne. Ciò che vale oggi, non necessariamente vale domani: il cambiamento delle regole è quasi l’unica regola certa.
(5) - Dal punto precedente, discende la quinta caratteristica: la peculiarità delle situazioni specifiche. Con la conseguenza pratica della impossibilità di continuare a servirsi di una “chiave universale“, capace di affrontare e risolvere “tutti“ i problemi. La “teoria della contingenza“ ce l’ha insegnato da tempo: la soluzione esiste, ma lo strumento che è in grado di produrla quasi sempre o va costruito ex novo o va aggiustato per la circostanza. Secondo la logica, appunto, dell’“ad hoc”.
(6) - Ancora un elemento di complessità sta nei meccanismi di causa-effetto: sempre meno netti e monodirezionali e sempre più circolari. Si producono così grappoli di cause-effetti, nei quali le distinzioni e le precise imputazioni sono impossibili: ed è difficile spezzare la logica dei “circoli“, così come per nulla facile è l’uso di questa in chiave positiva, quando si voglia passare dalle forme più “viziose“ a quelle più “virtuose“.
(7) - Altro tratto che aumenta il grado di “intrico“, sociale e organizzativo, dei feno¬meni attuali è costituito dalla copresenza di poteri plurimi, diffusi e non sempre a priori perfettamente localizzabili. La “regia“ non è mai solo situabile da una parte, in mano a qualcuno chiaramente identificato; gli attori sono tanti, talvolta quanti sono i “registi“. Con le sinergie, positive e negative, che ne conseguono.
(8) - L’elemento “connessione“ è dunque componente fondamentale del concetto di complessità. L’interdipendenza dei soggetti fa saltare la vecchia illusione che qualcuno possa fare come se gli altri non esistessero. La realtà - tutte le realtà - è meno vasta di quanto si immagini: i comportamenti si influenzano reciprocamente, gli effetti scattano a raggiera - in verticale e in orizzontale - e nessuno può sottrarsi al fenomeno delle influenze multiple.
(9) - Ultima riflessione riguarda la labilità dei confini: sia di quelli spazio-temporali - il ”fuori” non è sempre così nettamente distinguibile dal ”dentro”, e viceversa; l’”oggi” e il ”domani” sfumano in dissolvenze continue - sia di quelli tracciati, per consuetudine, dagli approcci consolidati di analisi e comprensione della realtà - vecchie discipline si ibridizzano, dando origine a nuove aree di indagine che si impadroniscono di nuovi oggetti di studio.
Uno sguardo attorno a noi
Uno sguardo anche superficiale lanciato attorno a noi, tenendo presenti almeno i nove punti sopra accennati, conferma che il tasso di complessità delle situazioni in cui per lo più agiamo, è massimo.
Eravamo abituati a modelli di lettura e di intervento semplici: che ci davano ritorni immediati e di sicura validità. Abbiamo perso certezze e sicurezze. Abbiamo scontato l’insufficienza dei nostri attrezzi tradizionali e abbiamo imparato a costruire nuovi strumenti, provvisori ma proprio per ciò più affidabili. Non abbiamo ancora assorbito il disorientamento, tipico del passaggio di fase, sul piano psicologico: abbandonare il fascino tranquillizzante dell’“one best way” per la fragilità e la scivolosità dell’approccio situazionale è cosa che richiede tempo.
Credevamo di possedere gli appigli giusti - i vecchi strumenti, i soliti comportamenti, le norme e le conoscenze di sempre - e invece ci scopriamo senza stampelle e soli: a interpretare e a fare. E a interpretare come fare. Le regole, certo, non sono scomparse: ma sono nascoste, variano e vanno ”estratte”, ogni volta, dalla realtà. Di fronte alla quale abbiamo da far valere, unicamente, la nostra capacità/sensibilità di ”intelligere”: di ricostruire - decifrare, utilizzare - le connessioni, le interdipendenze, i percorsi non prevedibili di influenza e di scambio.
Non più una norma da calare sulla realtà; non più prescrizioni e non più semplici e facili esecuzioni. La realtà - plurale, contingente, mutevole, unica nelle sue infinite sfaccettature - va ogni volta esplorata - abbracciata nella sua complessità (da “complector”); rivelata nelle pieghe che la rendono complicata (da “cum-plico”) - e confrontata con ”più” regole - di indirizzo, di orientamento - che la sappiano descrivere e interpretare.
10 caratteristiche per agire nella complessità
A questo punto, possiamo riassumere alcune fra le principali caratteristiche che oggi intravvediamo necessarie per maneggiare questa nuova dimensione presente nella realtà.
Ne ho individuate una decina.
(1) - La prima qualità ha a che fare proprio con la capacità di vivere la complessità nei suoi aspetti strutturali più vivi e profondi. Si tratta di una nuova competenza, che deve informare diversamente ogni nostro processo di analisi e di sintesi, e che articolo in due espressioni in forma di ”ossimoro” - la figura che meglio suggerisce la poliedricità di un approccio intrinsecamente contraddittorio, quale quello oggi a mio avviso indispensabile per rendere fertile il rapporto con il reale -: il saper fare ”analisi rotonde” e il saper fare ”sintesi ricche”.
La complessità esige conoscenze approfondite, puntuali, precise. Sono necessarie diagnosi penetranti, non improvvisate, che sappiano mettere in discussione il ”dato”, avendo visto ”sotto” e ”dietro” esso. La dimensione ”verticalità” - presente in ogni processo analitico - va preservata, pena la caduta nella genericità e nella superficialità. Tuttavia, occorre inserire un contrappeso, un contenimento: rappresentato in qualche modo da un riferimento alla dimensione opposta, costituita dalla ”orizzontalità” propria del processo sintetico. L’analisi deve sapersi sviluppare anche ”in rotondo”: muovendosi a trecentosessanta gradi, lungo le pieghe e le sfaccettature di una realtà che corre anche ”attorno” al dato. Per non perdersi nelle serpentine di un percorso solo in profondità, che rischia di trasformare l’analisi in un compito fine a se stesso, auto-alimentante e auto-giustificatorio: che non serve più a ”com-prendere”, ma solo a collezionare dati per la gioia - davvero ”anale” - di un diagnosta perfezionista ormai dimentico di qualunque bussola.
Analogo è il discorso sul versante dei processi di sintesi. Sempre più necessitiamo di interpretazioni e valutazioni capaci di riportare ad unità il molteplice; di ”fare il punto” - sia pure provvisorio - fra i tanti punti oggetto di osservazione; di riassumere la varietà entro ”con-clusioni” aperte - e dunque sempre suscettibili di verifica -, ma tendenzialmente stabili e affidabili. Semplificare è un’esigenza imprescindibile, ancora più evidente quando la realtà ci si presenta intricata - ambivalente, contraddittoria, confusa -; ma il rischio della spiegazione semplicistica, che accontenta senza risolvere, è implicito nello sforzo di render semplice ciò che strutturalmente semplice non è. Perciò, ”sintesi ricche”. Ossia sintesi ”intense”: che conservino la ”densità” dell’analisi effettuata e non impoveriscano, nella piattezza di un giudizio frettoloso e illusoriamente ”operativo”, lo spessore di dati intrinsecamente sfaccettati, da assumere nella loro pienezza e variegatura.
(2) - Una seconda qualità è rappresentata da un rinvigorimento della dimensione ”gestionalità”, che si traduce in capacità ”organizzativo-orizzontali-di confine”.
La complessità impone a ogni ruolo - manager, ma anche professional - una nuova competenza operativa: più indiretta, ma non per questo meno concreta. Si tratta di saper attivare - promuovere, accendere, accompagnare - processi: orientare persone e attività, organizzare percorsi, verificare andamenti. Si tratta di saper governare rapporti: presidiare obiettivi, rappresentare interessi, compatibilizzare necessità. Si tratta di saper ”gestire i confini”: un occhio nel proprio sottosistema di competenza, un altro - ma verrebbe da dire: molti altri -all’esterno; per cogliere segnali, anticipare aggiustamenti, controllare feedback.
Capacità cui nessun manager, se non vuole venir meno alla sua funzione, può rinunciare. Ma capacità, anche, oggi sempre più indispensabili per chiunque - specialista o capo — operi dentro un’organizzazione che abbia lasciato dietro di sé i modelli tayloristici di frammentazione del lavoro e intenda combattere i residui culturali di una logica di separazione - ”ognuno pensi per sé” - che nel costruire i ”compartimenti stagni” ha prodotto altrettanto ”stagni comportamenti”.
(3) - Una terza capacità rimanda a un termine tanto vivido, se si pensa all'etimologia, quanto consunto dall'uso - più formale - che ne è stato fatto.
Alludo alla capacità di "progetto" : una capacità che domanda uno "sforzo di futuro" non facile, ma imprescindibile, se non si intende rinunciare alla volontà di controllo - di pianificazione e dunque di governo - del "presente che sarà domani".
L'immersione nell'oggi più "sfrenato" sembra essere attualmente la caratteristica più diffusa: il manualismo di certo "time management" cerca di lenire il problema, offrendo improbabili "trick", che non intaccano la cultura di fondo. Stenta così a farsi strada un "pensiero largo e lungo" - che "vada oltre", sia sul piano spaziale che temporale -, capace di combinarsi con un pragmatismo teso e dignitoso, in quanto non separato da finalità consapevolmente determinate: nelle quali abbiano spazio anche i valori e per le quali si abbia gusto e voglia di battersi, senza abbandonare né le giuste mediazioni né la costruttiva perseveranza del traguardo finale.
La navigazione priva di obiettivi e di sestante è pericolosa sempre, ma - ovviamente - ancor più quando i mari si fanno turbolenti, i fondali sono popolati di scogli e i venti diventano capricciosi. E allora che occorrono mete, rotte e controlli: scelte consapevoli, che indichino dove, quando e come.
La complessità crescente ha bisogno di progettualità: cioè di atteggiamenti e comportamenti orientati, mirati, responsabilizzati. Un'"auto-direzione" intelligente e non arrogante: che faccia i conti con l'esterno - gli altri, i vincoli, le opportunità -, ma che abbia "sapienza di fini e di strategie".
(4) - Abbiamo già ricordato l'indispensabilità di conoscenze approfondite per gestire una realtà sempre meno semplice e uguale a se stessa. Disponiamo di competenze per definizione mai del tutto adeguate: abbisogniamo di tecnologie più raffinate, precise, sistematizzate.
Dobbiamo incrementare il nostro "saper-come": investire in metodi, tecniche, strumenti. Dobbiamo migliorare i nostri standard di comportamento professionale: essere più "esatti" e "puntuali" nell'accostare i problemi e nell'attuare le soluzioni.
Ben vengano le "specifiche" dei manuali. Ma che si colleghino ad un sapere di fondo, più ampio e trasversale, il quale conservi il "senso del problema". E rimandi ai "perché", attraverso l'elaborazione di domande, dubbi, ipotesi.
La quarta qualità, dunque, è un mix equilibrato di competenze e di sensibilità: al "know how" - le informazioni per agire - va congiunto un "know why" severo, rigoroso, esigente.
Non si sta nella complessità solo armati di mappe: accanto a tutta la "tecnologia aggiornata del viaggiare", servono capacità di porsi interrogativi, atteggiamenti di sana curiosità, volontà di mettere in discussione e di saggiare la consistenza delle spiegazioni trovate di primo acchito. Un pensiero problematico, insomma, che non inventa questioni per sfuggire alla "banalità" dell'agire quotidiano, ma che cerca domande proprio per rendere l'agire quotidiano più consapevole, diretto e ficcante.
(5) - Si è detto: complessità significa "intrico". E intrico significa rapporti, nessi, reti: tra cose e tra soggetti. Anche chi agisce in un simile contesto, dunque, se non vuole correre il pericolo di "andare insieme" come una maionese impazzita, necessita di legami. E, soprattutto, di "senso del legame", m sostanza, di un "vissuto di relazione", che lo renda cosciente di non essere - e di non poter essere - "auto-sufficiente".
Una buona capacità di convivenza, oggi, passa attraverso la presa d'atto di tre condizioni - permanenti e ineliminabili -, che si riassumono nelle seguenti asserzioni: ognuno dipende reciprocamente dall'altro; ognuno è chiamato a compatibilizzare se stesso con l'altro; ognuno - oltre che a se stesso - appartiene ad altri. Nell'ordine: interdipendenza, integrazione e identificazione.
Certo, il rischio - talora la certezza - di una mortificazione del singolo è alto. Però, qui il richiamo è semplicemente a quanto ci impone, senza infingimenti, una sincera analisi di realtà. Mancanza di "auto-sufficienza" non implica annullamento di "autonomia"; anzi, è da promuovere un incremento di "normatività interna", che sia a chiunque di bussola per una "relazionalità" più proficua e largamente intensa.
Il "senso del legame", se ben interpretato e soprattutto utilmente governato, non deprime il singolo: lo "relativizza" soltanto, ricordando a ognuno la fertilità di una soggettività che possa esprimersi pienamente da parte di tutti e a spese di nessuno.
(6) - La sesta qualità è già emersa parlando delle precedenti. Non c'è curiosità senza amore per la differenza, per il pensare un po' "erratico e anche eretico".
La complessità, più che venire risolta, va esplorata: e l'esplorazione non la si fa percorrendo le strade principali - consuete, rassicuranti, memorizzate in ogni più piccolo dosso -, ma rischiando nuovi viottoli, costruiti per l'occasione o comunque mai tentati. Il semplice è tutto previsto, tutto normalizzabile; il complesso ama l'improbabile e la devianza. Il noto è stabilità; la turbolenza nasconde la disconferma, l'irregolarità. Gusto per la differenza, dunque.
(7) - Anche dal punto precedente discende la capacità di intrecciare "dia-loghi" veri - non rituali, e perciò vivi e fecondi -: una necessità operativa, e non soltanto un'apprezzabile qualità "estetica".
E infatti: in assenza di riferimenti - sicuri, duraturi - non resta che il confronto: per capire, capirsi, decidere, agire. Ossia la messa in comune, a partire da posizioni diverse, di opinioni, attese, obiettivi non necessariamente già condivisi. Incontri anche duri: che sappiano però elaborare - nel rispetto reciproco - le differenze; e le facciano fruttare verso fini di maggiore compatibilita per tutte le parti in gioco.
Quando le religioni non tengono più e le sicurezze passionali si sono infrante nella verifica inesorabile dei dati di realtà, l'unica religione praticabile diviene la ricerca non dell"ottimo", bensì dell'"ottimale": e il coinvolgimento degli altri, in questa ricerca, diviene una modalità, più che "buona" sul piano della correttezza "democratica", "utile" sul piano dei risultati concreti ottenibili.
(8) - Ho già accennato all'atteggiamento che sa "contenere" - nel significato di "tenere dentro insieme, senza espellere" - la contraddizione.
La piattezza di contesti ad alto tasso di semplicità non conosce ambivalenze ne ambiguità: tutto vi è chiaro e distinto e ogni soluzione è netta e inequivoca. La labilità dei confini, ma anche la contraddittorietà dei fenomeni osservati, è invece tipica di situazioni a forte grado di complessità.
Ne consegue, qui, una capacità fondamentale, che trae alimento da una disposizione psicologica di base, la quale abbia imparato a convivere con l'ansia da incertezza, problematicità, dubbio. La tolleranza dell'ambivalenza - ma, forse, della multivalenza - diviene pertanto strumento imprescindibile di governo: una qualità che consente di viaggiare con relativa sicurezza entro un territorio accidentato e imprevedibile, che profonde insicurezza a ogni passo.
(9) - Di questo penultimo punto - la capacità di autoformazione - si sta parlando da qualche anno. E si capisce: se i contenuti oggetto di possibile e necessario apprendimento tendono a crescere in maniera ormai incontrollabile, la soluzione non sta più nell'individuarli per tempo, classificarli e organizzarli in forme utilmente didattiche ed erogarli a popolazioni di discenti anch'esse in aumento esponenziale. La strada dell'au-toformazione diviene l'unica percorribile: bisogna che impariamo a imparare. Che riflettiamo sui meccanismi che presiedono all'apprendimento e che impariamo a utilizzarli, in maniera consapevole e mirata, per processi di auto-insegnamento autocontrollati.
Insomma, occorre che diventiamo tutti formatori di noi stessi: capaci di pensare il nuovo, il molteplice, il complesso in cui già siamo e che continuerà a prodursi domani, come oggi e diversamente da oggi.
(10) - L'elenco si chiude con l'indicazione di una capacità che sarà argomento delle ultime pagine del presente articolo: la capacità di "stare nel" e di "gestire il" proprio ruolo. Si è richiamato, più sopra, il concetto di "solitudine" : la complessità affida noi a noi stessi, alla nostra capacità di "intelligere" e dunque di governare senza essere governati.
Esiste però un mediatore, tra noi e il contesto, che non diminuisce la nostra solitudine, ma rende ulteriormente problematico il nostro operare. Questo mediatore è rappresentato dal "ruolo" che siamo chiamati a giocare: un ruolo che ci è stato assegnato o un ruolo che abbiamo deciso autonomamente di assumere. La differenza ha conseguenze, ma non intacca la questione del nodo costituito dal rapporto fra noi e il ruolo. Un nodo che evidentemente è sempre esistito e non è prerogativa di situazioni a forte complessità; ma che la dimensione complessità esalta, domandando una riflessione più attenta e sensibile.
I ruoli nella complessità crescente
E infatti: come si connotano, in generale, i ruoli che incontriamo nei contesti a complessità crescente?
Evidentemente, all'opposto di quanto il taylorismo vagheggiava e progettava: non prescrittivi, ma discrezionali; flessibili e aperti al mutamento; tendenzialmente tutti contributori; fortemente orientali a promuovere "orizzontalità"; sostanzialmente integratori.
Ne derivano almeno 3 ordini di conseguenze.
La prima: una maggiore incertezza dei confini.
La seconda: un maggior volume di conflittualità potenziale.
La terza: una maggiore quota di ansia da "non-definizione".
Insomma, un incremento specifico di complessità anche a livello del micro-contesto rappresentato dallo specifico ruolo di cui siamo titolari.
La soluzione, evidentemente, non sta in improbabili formalizzazioni cartacee: indispensabili per istituire le pre-condizioni di chiarezza organizzativa, ma inadeguate a garantire certezza di comportamenti e attribuzioni esatte di compiti e responsabilità. La soluzione sta nella gestione attiva - dunque nel gioco effettivo, sul campo - dei ruoli. Qui si stabiliscono - contrattandoli e ritarandoli nel "durante" - le certezze dei confini. Qui si risolvono - negoziando gli interessi, gli obiettivi, i poteri e le competenze - i conflitti. Qui si contiene - imparando l'"auto-nomia" - l'ansia che nasce dalla scarsa definizione di regole e procedure. Insomma: la capacità - tecnica ma anche psicologica; razionale ma anche emotiva - di "presidiare" il proprio ruolo diviene mezzo fondamentale per governare la complessità nel suo insieme.
Lo stato attuale delle imprese
Sorge a questo punto una prima domanda: se quelle sopra accennate rappresentano almeno le principali qualità ritenute congruenti con un controllo efficace di situazioni caratterizzate da complessità crescente, come "stiamo" nelle imprese italiane, quanto ad adeguatezza culturale delle risorse implicate?
La risposta, in assenza di dati empirici, deve sfuggire tanto all'ottimismo consolatorio - che tende a dare per percorsa più strada di quella effettivamente compiuta - quanto al pessimismo depressivo — che mette l'occhio soltanto sul tratto, considerevole, di cammino ancora da svolgere.
L'inadeguatezza, comunque, non pare essere semplicemente una sensazione: difficoltà, inefficienze, errori passati e presenti sul piano manageriale - di business, di orientamento strategico - sono elementi oggettivi che potrebbero confortare il giudizio. E del resto, se mai si passa da una fase all'altra senza pagare i costi di un apprendimento, la fase attuale della complessità pone prezzi decisamente cari, che si pagano anche con tempi tecnici di apprendimento sui quali non sono ammessi sconti.
Ulteriori domande potrebbero invece riguardare l'elenco delle dieci qualità citate: nessun'altra, non compresa nel catalogo, davvero meritevole di menzione? E quelle inserite, tutte altrettanto fondamentali?
Al solito, l'elenco non vuole essere esaustivo; ma credo sarebbe sufficiente - se tradotto in competenze e comportamenti conseguenti - a produrre un decisivo e più che visibile salto di passo, sia in termini di efficacia che di efficienza, alla maggior parte delle imprese, per non parlar delle altre organizzazioni di lavoro.
Quanto poi alle valutazioni di importanza sulle differenti qualità, senza troppo sfumare le altre, una soprattutto sottolineerei: l'ultima, appunto, riferita alla gestione dei ruoli.
E la ragione è evidente: da questa "passano" quasi tutte quelle elencate; riempiendo di contenuti questa, si creano le condizioni perché le altre rinvigoriscano e aumentino la loro incisività pratica.
5 considerazioni per 'presidiare' i ruoli
In quest'ultimo paragrafo, tentiamo dunque di fissare alcune "meta-regole", capaci di orientarci verso un governo più pieno e fattivo dei ruoli di cui ci accade di essere portatori.
(1) - "'Presidiare" un ruolo è cosa diversa da "presiederlo'". Anche l'etimologia ce lo rammenta: "stare seduti davanti, in posizione attiva di difesa" (presidiare) non è la stessa cosa che "stare seduti davanti, ma in posizione superiore e tendenzialmente formale di dominio" (presiedere).
(2) - Un ruolo può certamente essere "dato", ma perché sia esercitato, ogni ruolo deve comunque essere "preso"; indossato, fatto proprio, "aggiustato" da chi ne è divenuto titolare.
(3) - Un ruolo, come qualunque "diritto/dovere", va esercitato: se non viene attivato, "cade in prescrizione" e nessuno riconosce più al titolare il diritto di esercitarlo.
(4) - Un ruolo non è una "mansione" : è una "parte viva", che viene "rappresentata" da un soggetto concreto, cui è domandato appunto di giocarla. E il prodotto dinamico di un "intreccio", esercitato sul campo, frutto della conciliazione - precaria, tutta sempre da ri-giocare - di attese, comportamenti, poteri differenti.
Ne consegue un radicale "aut-aut": o è il titolare che definisce - concorre a definire - il proprio ruolo, esercitandolo sul campo, oppure il ruolo viene definito dagli altri: dal contesto, dalle interfacce.
(5) - Corollario del punto precedente, è un'ultima asserzione: se non è il titolare che difende il proprio ruolo, non lo fa - non è tenuto a farlo - nessun altro. E questo rimanda, indietro, al concetto - tutto attivo, denso, responsabilizzante - di "presidio".
5 attenzioni finali
Completiamo la riflessione con alcune "attenzioni", in negativo, che tra l'altro meglio ci sembra sfaccettino le considerazioni appena svolte.
(1) - Attenzione a non considerare il ruolo come "'nicchia".
Quando ciò avviene, ciò significa che noi siamo stati assorbiti dalla "parte" assegnataci e che questa "parte" noi la usiamo solo per ripararcene: a mo' di difesa burocratica o a mo' di caldo nascondiglio. Che insomma non esercitiamo più una funzione, ma ci accontentiamo di averla ricevuta: per essere, sempre etimologicamente, dei perfetti "funzionari".
(2) - Attenzione a non considerare il ruolo un "diritto acquisito".
Nelle situazioni odierne, nulla è garantito e tutto è in gioco: ciò che è conquistato va riconquistato, ciò che si è avuto può essere perso. Nella logica, unica effettivamente vincente, che non esiste "procedura" che possa assicurare un "processo".
(3) - Attenzione a non confondere "autorità" con "autorevolezza"
La prima è condizione indispensabile per la "titolarietà formale", la seconda è condizione essenziale per la "titolarità reale": che si acquista sul campo e si confronta con le capacità effettivamente espresse. Per l'esercizio di un ruolo, occorrono le "spalline", simbolo di "autorità", ma sono decisive le "spalle" - poste sotto le spalline -, che si fortificano e si sviluppano con l'esercizio e sono simbolo di credibilità conquistata.
(4) - Attenzione a non cadere nella trappola della pendolarità viziosa fra "onnipotenza" e "impotenza".
"Agire" un ruolo significa portare a piena espressione tutte le potenzialità in esso implicite: capendo cosa è possibile, e necessario fare, e cosa no. Cogliere il confine - spesso tra l'altro mutevole - non è facile, ma la soluzione più comoda e de-responsabilizzante che enfatizza i vincoli, rappresenta un modo sicuro - ancorché diffuso - di rinuncia al ruolo.
All'estremo opposto, sta evidentemente il velleitarismo, inconcludente e nocivo a sé e agli altri: che non muta le situazioni, anche se magari ne declama il superamento a ogni pie' sospinto.
(5) - Attenzione a non confondere "auto-nomia" con "auto-sufficienza".
Abbiamo già detto che i due termini non sono accostabili: il primo non è in contrasto con una funzionale e utile dimensione di "relazionalità", il secondo nega la condizione - oggettivamente sperimentabile - di comune e generalizzata "interdipendenza". L'autonomia è l'unico carburante per dare vita a processi non preventivamente determinati, ma aperti al gioco degli attori: delle loro competenze, volontà, responsabilità. Non esiste presidio senza autonomia e con¬seguente responsabilità: un impoverimento di entrambi i fattori burocratizza i rapporti, inaridendo la vitalità dei processi - regrediti a procedure - e anchilosa i ruoli, bloccandoli dentro mansioni senz'anima, buone per gli archivi di un'organizzazione ridotta a organigrammi.
In conclusione
La complessità è un dato strutturale: non una moda né uno slogan. Va affrontata con attrezzi rigorosi: che la sappiano esplorare, decifrare, governare. Ma la tecnologia - sia quella di analisi che quella di intervento - va supportata e fecondata da uno spirito aperto, curioso, dialettico: che non si adagi nella tranquilla accecttazione dell'esistente o nella fatalistica attesa del futuro.
Necessitiamo di comportamenti più attivi, che ci aiutino a "stanarci" reciprocamente dalle nicchie in cui troppo spesso ci lasciamo acquetare. Necessitiamo di ruoli più "pieni" : dentro cui i soggetti recuperino la voglia e il gusto di misurare le loro competenze e le loro mete.
La complessità è movimento, instabilità, sorpresa: se la sapremo meglio "ascoltare", forse ci insegnerà come fare per restituire un po' più di scopo e "senso di vita" anche alle burocrazie più addormentate.
*** Massimo Ferrario, Cultura per la complessità e presidio dei ruoli, 'SL', Rivista di organizzazione, AISL, Associazione Italiana Studio del Lavoro, n. 4/89, dicembre 1989. Materiale riproducibile citando autore e fonte.
Grazie Massimo per questo stimolante "amarcord".E' stupefacente verificare quanto attuali siano i riscontri della raffinata analisi qui esposta, la cui intelaiatura concettuale ancora oggi mi sembra un ottimo strumento di lettura della realtá. Inoltre sia le meta-regole, sia le "attenzioni" suggerite, sono perfettamente congruenti con il dibattito in corso sul futuro del lavoro nell' era dell' indeterminatezza (o della fine del lavoro, come diceva Rifkin all soglie del 2000?). Fatto sta che la complessitá é sempre più complessa, come l' entropia non può che aumentare. E non é un case che il tuo ottimo lavoro, caro Massimo, risalga alla metà degli anni 80, dove, nel bene e nel male la curva entropica (e antropica) ebbe quel balzo esponenziale in cui ancora siamo proiettati. Verso dove?
RispondiEliminaGrazie davvero, Paolo.
RispondiEliminaIl tuo commento, che spero condiviso anche da altri, mi ha tolto una preoccupazione: devo dire che ci avevo pensato molto, prima di pubblicare il pezzo, perché temevo di apparire più... narcisista di quanto già non sia (!).
Poi ho superato i dubbi: intanto perché, se si sta su un blog (e si è fatto il mio mestiere per anni), bisogna aver imparato ad accettare un po' di protagonismo (!), con i rischi che ne conseguono.
E poi perché, come dicevo nell'introduzione, a parte il fatto che i contenuti non mi sembrano datati e la riflessione mi pare calzi tuttora, volevo dimostrare, specie a chi ha meno anni e conoscenza/esperienza di certe questioni, che, come tu ben sottolinei, l'attualità di certi temi... viene da lontano.
Tra l'altro, in archivio ho riscoperto parecchie altre 'cose' che forse meritano di essere riesumate: a conferma che anche il 'vecchio', prima di essere rottamato, quanto meno va conosciuto.
E quindi, in futuro, riproporrò altri argomenti, sperando di non annoiare, e chiedendo a chi legge di 'validare', o invalidare, senza remore il mio pensiero: chi mi conosce sa che apprezzo nei fatti, e non a parole, il 'dissenso', perché è il sale di una discussione che voglia far pensare (e ri-pensare)...
In tutta sinceritá ritengo che le "riesumazioni" di cui parli possano essere veramente dei "pezzi forti" del tuo blog, quelli che per gli ammalati di analisi dei sistemi come me, e penso per molti altri cultori piú o meno "esperti", valgono da soli il prezzo del biglietto. E poi consentimi di dirti che il tuo stile é senza dubbio un "evergreen" , con quel giusto mix di logica e polemica (logos e polemos, mente e cuore, testa e pancia?) sempre dia-loganti, peró. Credo inoltre che rimettere in circolazione il tuo archivio garantisca a tutti noi diversamente auto-formanti una buona opportunitá di "benchmarking" (scusa la parolaccia ;-) per cercare di capire dove siamo, e quale "best practice" intraprendere.
RispondiEliminaMi hai rincuorato...;-)
RispondiEliminaAnche troppo. E mi ci vorrà un po' di 'egopuntura'...;-)
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