La tragedia del Covid-19 ci ha mostrato drammaticamente la fragilità di un’economia affidata alla sola intelligenza del mercato, ma anche la sua incapacità di affrontare le emergenze, come l’impossibilità a lungo riscontrata di reperire mascherine e dispositivi di protezione individuale ha reso evidente. Allo stesso tempo, le molte imprese che hanno reclamato il diritto-dovere di massimizzare i profitti a breve termine, anche a scapito dell’ambiente o favorendo le disuguaglianze, si trovano oggi di fronte al dilemma se chiudere o invocare l’aiuto dello Stato. Ma se, come diceva Winston Churchill, «le crisi peggiori sono quelle sprecate», anche da questa possiamo trarre ispirazione per nuovi modelli di sviluppo.
Peraltro, le riflessioni generate dal Covid-19 si legano a una preesistente spinta al cambiamento dell’impresa tradizionale. Possiamo farla partire dall’agosto 2019, quando i 181 capi delle più potenti aziende globali – tra cui Amazon, Apple, Oracle – hanno sottoscritto un manifesto che scuote le fondamenta stesse dell’impresa capitalistica. Accanto agli interessi degli azionisti, questi supermanager hanno aggiunto quelli, oggi secondari, dei dipendenti, dei clienti, dei fornitori e della comunità. Non rappresentano un’avanguardia isolata: già nel 2008 Bill Gates, a Davos, parlava di Creative Capitalism; altri sono seguiti, dal guru di Harvard Michael Porter sino a Lynn Forester de Rothschild con la proposta dell’Inclusive Capitalism. Come non ricordare poi la lettera enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate, in cui la supremazia del mercato veniva riconsiderata alla luce del bene sociale. E il «Financial Times» ha recentemente pubblicato un editoriale dal titolo Capitalism, Time for a Reset. Molte sono le voci influenti che sostengono la necessità di una revisione del modello capitalistico, sotto accusa per la crescente disuguaglianza di reddito, l’attacco alla dignità del lavoro, gli effetti sul clima. Si chiede un’inversione a U che segnerebbe il tramonto dello shareholder value, il valore per gli azionisti, mantra della massimizzazione del profitto. L’impresa non più concepita come una proprietà degli azionisti, sempre più mobili e anonimi, bensì come un’entità con una propria vita indipendente al servizio di una platea di portatori di interesse più ampia.
In Italia, molti anni fa, un uomo, Enrico Mattei, partendo da un’azienda pubblica in liquidazione elaborò e perseguì con tenacia un modello imprenditoriale orientato al bene collettivo. La sua azione si snodò lungo un confronto duro, talvolta aspro, con i campioni del capitalismo occidentale del tempo, straordinariamente moderno. Mattei impersona lo spirito della ricostruzione dopo la guerra, e la sua figura ancora sopravvive nella memoria popolare a quasi sessant’anni dalla scomparsa, nel 1962. Viene spesso avvicinato ad Adriano Olivetti per la comune visione sociale dell’impresa, in realtà i due personaggi rimangono lontani per storia personale e per le modalità con cui hanno perseguito il loro progetto. Olivetti, di ricca famiglia borghese, forgia una scuola di management colta, ma la sua impresa si è purtroppo estinta e lui stesso si dedica alla politica nell’ultima fase della vita. Opposto è il caso di Mattei: nasce da una famiglia modesta (il padre fu un coraggioso carabiniere che catturò il brigante Musolino), studia con fatica, diventa imprenditore, ricopre un ruolo al vertice nel fronte cattolico della Resistenza e di influente deputato della Democrazia Cristiana. Lascia la politica attiva per dedicarsi alla valorizzazione dell’AGIP e all’indipendenza energetica dell’Italia. Nata dal rischio di una liquidazione, locale e macilenta, la sua creatura è diventata una delle aziende italiane più longeve e di certo la più globale.
*** Sandro CATANI, consulente, saggista, Prefazione, Enrico Mattei, Gli italiani sanno lavorare, Garzanti, 2020
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