Michele SERRA, Ognuno potrebbe, Feltrinelli, 2015
pagine 152, € 14.00, ebook € 9,99
Leggo Michele Serra da una vita: le sue gustosissime 'amache' quotidiane su 'la Repubblica', i suoi articoli, i suoi libri, i suoi testi scherzosi anche in forma di poesie. Trovo in lui, oltre a una scrittura mirabile per il gioco sopraffino e sorprendente che riesce a fare con le parole e la costruzione delle frasi, una sintonia di fondo nella visione ideologico-generazionale del mondo: nella maggior parte dei casi concordo pienamente e quando mi capita di dissentire è un dissenso che 'quasi mi spiace', perché comunque lui riesce a farmi apprezzare il contenuto da cui dissento, anche per il modo, sempre intelligente, argomentato e garbato, con cui lo propone.
Questo libro non mi sorprende: si legge in un fiato. Un fiato leggero e piacevole, ma che è anche un lungo sospiro, tra l'amaro e il depresso. Un ossimoro, insomma: e io con gli ossimori vado a nozze.
La trama è tanto sottile che pare non esserci.
Più che una storia tradizionale, con un inizio e una fine, è un filo sospeso: come del resto il titolo, 'Ognuno potrebbe', in cui si leggono i puntini anche se non ci sono.
Un filo che tiene insieme considerazioni, ricordi, riflessioni, dentro un vissuto raccontato in tempo reale dal protagonista, Giulio, che a quasi quarant'anni si trova ancora precario a fare strane ricerche, qualificate come antropologiche, sull'esultanza dei giocatori di calcio dopo aver segnato un gol. Uno studio insensato, emblema di molti lavori tra lo strambo e l'inutile oggi diventati di moda e quindi utilissimi, che Giulio conduce insieme con un collega, Ricky, perfettamente in linea con i tempi dell'iperottimismo imperante e (auto)imposto come dovere.
Attorno a loro due, Agnese, che 'fa' la fidanzata di Giulio quando non parla o digita sull''egofono' (traduzione serriana di Iphone), costretta ad una dipendenza tecnologica che ormai non è solo sua. E soprattutto, in primo piano, il paesaggio abbrutito e deprimente, insulso e disordinato, del Nord Est: che si distende tra capannoni, ormai più o meno abbandonati, e rotonde, più o meno solitarie.
La vicenda è tutta assorbita dal rimescolio di pensieri di Giulio: su di sé e sul mondo. Il risultato poteva produrre nel lettore una noia mortale; invece, questo rimuginare del protagonista viene reso con una leggerezza e una ironia che, per quanto ambedue appaiano asprigne e venate di pessimismo, catturano e suggeriscono il sorriso, rendendo quanto mai fluida la lettura.
Colpisce tra l'altro la contraddizione di Giulio, comune ai tanti che possono con lui identificarsi: odia il mondo, anche perché lo accusa di essersi lasciato ridurre al nostro piccolo-grande Io ombelicato, incensato ogni giorno dalla valanga ossessiva dei 'selfie' che ci scattiamo, e poi lui stesso resta prigioniero, insofferente e sofferente, del piccolo perimetro rappresentato da se stesso: incapace di agire e di dare corpo a quell''ognuno potrebbe' che pure lui stesso parrebbe avvertire, sullo sfondo, come pur vago richiamo ad un agire diverso.
In sostanza: un libro poco adatto a chi ama l'azione, ma consigliato a chi sa 'fare pausa'.
Lo assapora senz'altro chi sa prendere le distanze, almeno ogni tanto, dalla frenesia nevrotica del succedersi delle cose, nella finzione oltre che nel reale, per osservare il lento muoversi di fotogrammi che pure 'fanno la vita'. Lo apprezza insomma chi non ha smarrito il gusto, se ha ancora un pensiero capace di pensare, di condividere le riflessioni argute che pure un 'film' apparentemente fiacco, solo perché pigro di eventi esteriori, ma ricco di stimoli anche interiori, può evocare.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
«
La Tac è a posto. Solo una ferita lacerocontusa alla fronte. Un paio di punti di sutura. Probabilmente, aggiunge, non rimarrà nemmeno la cicatrice, ma questo potrebbe spiegarmelo meglio il medico di guardia, ammesso di riuscire a parlargli, perché ha molto da fare. Il pronto soccorso – lo vede anche lei – è strapieno, dice l’infermiera. Poi, come se avere appena evocato l’indisponibilità del medico di guardia la promuovesse sul campo, autorizzandola a dire qualcosa di più scientificamente impegnativo, si sporge dal suo bancone e mi dice, con un mezzo sorriso: sindrome dello Sguardo Basso. È già la terza, da stamattina. La guardo senza capire. La botta ha avuto conseguenze neurologiche? Agnese non riesce più a regolare l’altezza dello sguardo? L’infermiera, vedendomi perplesso, approfondisce: la signorina camminava digitando. E se uno digita, non vede dove mette i piedi. È scesa dal marciapiede senza accorgersi della bicicletta. Noi qui la chiamiamo sindrome dello Sguardo Basso. Me la vedo: coi riccioli sospesi sul volto, i begli occhi neri chini sulla tastiera, l’egòfono nella mano sinistra e la destra che digita febbrile, un passo giù dal marciapiede magari per scansare un’auto parcheggiata o un altro digitambulo come lei, il ciclista che non riesce a frenare e la prende in pieno, lei che per prima cosa, anzi primissima, cerca l’egòfono per terra e controlla che non abbia subìto danni; e soltanto dopo la perizia tecnologica si dedica a quella fisiologica, si tocca la fronte, vede le dita bagnate di sangue. Si sarà pulita prima la fronte o prima le dita, per non sporcare la tastiera? Si saranno spiegati, magari scusati, lei e il ciclista, nella sbrigativa maniera delle nostre parti, dove ogni incidente è una colpevole interruzione del doveroso dirigersi di qua o di là? (Michele Serra, Ognuno potrebbe, Feltrinelli, 2015)
Le rotonde sono milioni, da queste parti. Produciamo rotonde. Di tutto il resto è come se si fosse perduto l’originale, la madreforma dalla quale le cose scaturiscono in file ordinate, con l’energia di un esercito in marcia. L’esercito delle merci si è fermato. Forse è solo un lungo bivacco, forse qualcuno ha dato il definitivo “rompete le righe”, ancora non è chiaro. Ma le rotonde no, loro continuano a nascere, in misteriosa autonomia. La loro corolla discoidale sboccia ovunque come se quell’unica specie avesse capito come moltiplicarsi mentre intorno disseccano, uno dopo l’altro, tutti gli altri fiori. Le rotonde sono la sola evidente genia vitale in questo sterminato deposito di muri silenziosi, capannoni vuoti, case scure che dietro ogni luce celano stremati calcoli domestici. (Michele Serra, Ognuno potrebbe, Feltrinelli, 2015)
E allora dimmelo e facciamola finita, mi dice. E allora te lo dico, gli dico. Vuol dire pugnetta. Farsi un selfie, prima dell’egòfono, ha sempre voluto dire: farsi una pugnetta. Se preferisci, una pippa. Anche se qui da noi è più corrente dire sega. Sai come siamo, qui da noi. Gran lavoratori. Riportiamo ogni cosa all’utensileria. Perfino le attività da fare rigorosamente a mani nude, noi le meccanizziamo. (Michele Serra, Ognuno potrebbe, Feltrinelli, 2015)
»
In Mixtura, altri 10 contributi di Michele Serra qui
Nessun commento:
Posta un commento