Giovanni RICCIARDI, La canzone del sangue, Fazi, 2015
pagine 124, € 14,50, in formato ebook € 9,99
La sua è la sesta indagine, ma il mio incontro con il commissario Ponzetti è il primo.
Una conoscenza che, me ne rammarico ora, avrei dovuto anticipare: la raffinatezza di pensiero e la modalità lenta e riflessiva con cui questo commissario mette insieme indizi per fare luce nel groviglio della storia, a partire dalle ombre sempre connaturate ai fatti, e lo fa con dolcezza e senza alcuna frettolosità violenta, mi hanno conquistato.
Recupererò ciò che ho perso delle indagini precedenti. Intanto posso dire di avere davvero apprezzato contenuto e stile. E forse ne avevo anche particolare bisogno. Reduce come sono da letture che mi hanno impegnato più che piacevolmente, oltre che per la trama in sé, per lo stile adrenalinico e il linguaggio contratto ed eccitante, mi è parso di trovare, finalmente, in queste pagine, come un'oasi di ristoro che si apre dopo una cavalcata al sole cocente di una sabbia infuocata.
Niente rotture tra un capitolo e l'altro: niente flashback o cambi repentini e spiazzanti di scene. Ma un fluire costante di acque armoniose, in un fiume che cresce, allargandosi, con pacatezza, per arrivare tranquillo alla foce.
Una modalità tradizionale, ma non per questo meno efficace e coinvolgente, di raccontare: distesa, non incalzante, che punta sullo scorrere degli eventi e sulla aggiunta, mano a mano, e senza precipitazione, di elementi che spiegano e forniscono indizi. E un periodare ampio ma fluido, che avvolge fatti e pensieri, senza urgenza, restituendoli chiari alla interpretazione di chi legge.
Lo spunto, in questa indagine, è una canzone famosa ('Vitti 'na crozza'), qui ricostruita nelle sue origini in forma romanzata (ma della quale, nella postfazione, l'autore ricorda ogni dettaglio storico, separando la finzione, da lui introdotta, dalla realtà per quanto possibile accertata).
Una donna, bellissima e seducente, fornita di una malia che ricorda il fascino di Calipso, chiede l'aiuto del commissario. Che è in ferie, in Sicilia, in una zona imprecisata, ma vicina al commissario Montalbano: l'altro 'personaggio di carta' («Siamo tutti personaggi di carta», commenta Ponzetti alla figlia) che viene insolitamente 'tirato dentro' nella vicenda, con una 'toccata e fuga' non secondaria, ma anzi cruciale, a mo' sia di simpatico omaggio al grande Camilleri che di allettante 'stuzzichino' per il lettore.
Il supporto chiesto al commissario è a seguito di un divorzio che si annuncia drammatico tra la donna e il marito, figlio succube di una famiglia di antichi proprietari della solfatara del paese e quindi, di fatto, padroni del paese stesso. C'è un omicidio: muore pugnalato nel sonno il grande vecchio della famiglia patriarcale. E anche se la soluzione più facile, per una qualche concatenazione dei fatti, parrebbe incolpare la giovane donna, il commissario Ponzetti, coinvolto senza essere formalmente coinvolto, mescolando vacanza e mestiere e supportato dal fido aiutante Iannotta (l'amico che interloquisce solo strascinando un romanesco accattivante), scopre un garbuglio: che incuriosisce e appassiona come un gioco enigmistico.
E il cui tentativo di soluzione occuperà al commissario la vacanza e al lettore due orette di dilettevole svago.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
«
Ma in definitiva, cos’è il fascino? Difficile dirlo. È una certa presenza della persona al di là dei suoi limiti. È anche una certa scioltezza, una disinvoltura nei gesti, nelle parole, quella facilità per cui ogni moto, ogni passo, ogni atto sembra riuscire senza sforzo. Ma questo fascino perfetto non s’addice in pienezza a un adulto.
Era seducente, questo sì, molto seducente. Ma questa sua aura di seduzione era qualcosa che stava a metà tra la necessità di essere protetta e il bisogno di dominare il suo protettore. Non donna o dea. Una mescolanza di tratti infantili e trucchi da prestigiatore. Eppure non sapevo risolvermi a capire come avessi potuto accettare il bacio con cui mi aveva congedato sulla soglia. Sarei voluto tornare indietro a chiedere perché, o a chiederne un altro, per pentirmene ancora. Me lo sentivo addosso, come un tradimento mille volte rimandato, un marchio che non sarei stato capace di cancellare, e temevo il ritorno a casa. (Giovanni Ricciardi, La canzone del sangue, Fazi, 2015)
Era seducente, questo sì, molto seducente. Ma questa sua aura di seduzione era qualcosa che stava a metà tra la necessità di essere protetta e il bisogno di dominare il suo protettore. Non donna o dea. Una mescolanza di tratti infantili e trucchi da prestigiatore. Eppure non sapevo risolvermi a capire come avessi potuto accettare il bacio con cui mi aveva congedato sulla soglia. Sarei voluto tornare indietro a chiedere perché, o a chiederne un altro, per pentirmene ancora. Me lo sentivo addosso, come un tradimento mille volte rimandato, un marchio che non sarei stato capace di cancellare, e temevo il ritorno a casa. (Giovanni Ricciardi, La canzone del sangue, Fazi, 2015)
«Lei ha qualcosa da darmi, vero?».
«Dipende dal suo interesse. Forse anche qualcosa da dirle. Oggi le indagini non sono più come quelle di una volta. La polizia cerca solo impronte digitali, tracce di DNA, orme di scarpe. Va tutto bene. Ma l’uomo, c’è qualcuno che lo conosce?».
«Io poco. Però apprezzo gli indizi e chi sa raccontare storie».
«Forse anche chi canta storie, che quello che non sa... lo sa cantare. Non diceva così un poeta di questi tempi frantumati? Io non ero intonato, ma ho imparato a solfeggiare in noviziato. I gesuiti, allora, al canto ci tenevano. Con permesso, altrimenti farò tardi per l’estremo saluto». (Giovanni Ricciardi, La canzone del sangue, Fazi, 2015)
«Dipende dal suo interesse. Forse anche qualcosa da dirle. Oggi le indagini non sono più come quelle di una volta. La polizia cerca solo impronte digitali, tracce di DNA, orme di scarpe. Va tutto bene. Ma l’uomo, c’è qualcuno che lo conosce?».
«Io poco. Però apprezzo gli indizi e chi sa raccontare storie».
«Forse anche chi canta storie, che quello che non sa... lo sa cantare. Non diceva così un poeta di questi tempi frantumati? Io non ero intonato, ma ho imparato a solfeggiare in noviziato. I gesuiti, allora, al canto ci tenevano. Con permesso, altrimenti farò tardi per l’estremo saluto». (Giovanni Ricciardi, La canzone del sangue, Fazi, 2015)
La vita vera non sempre mi appartiene.
Mi capita di abbandonarmi al flusso dei pensieri e chiedermi a volte dove sono finite le mie parole d’un tempo, come mi esprimevo a vent’anni, quali pensieri facessi allora, attraverso quali strade è sorto in me il Ponzetti Ottavio che sono oggi, coi suoi dubbi e il suo mutismo, con le sue abitudini invecchiate, con l’amore che mi circonda, nonostante tutto, immeritatamente.
E a volte mi accade di schermirmi in un imbarazzo che non ha nome, forse il sentimento di non essere mai stato ciò che ho desiderato, ma di essere soltanto ciò che sono, in parte straniero a me stesso, in parte ospite indesiderato di un io ideale che non è mai esistito, e se esiste ancora, rimane acquattato in qualche angolo della mente, come uno stanco padrone di casa che non ama più ricevere visite e quando è costretto ad aprire la porta spera soltanto che gli ospiti se ne vadano presto per tornare agli inutili pensieri di sempre. (Giovanni Ricciardi, La canzone del sangue, Fazi, 2015)
Mi capita di abbandonarmi al flusso dei pensieri e chiedermi a volte dove sono finite le mie parole d’un tempo, come mi esprimevo a vent’anni, quali pensieri facessi allora, attraverso quali strade è sorto in me il Ponzetti Ottavio che sono oggi, coi suoi dubbi e il suo mutismo, con le sue abitudini invecchiate, con l’amore che mi circonda, nonostante tutto, immeritatamente.
E a volte mi accade di schermirmi in un imbarazzo che non ha nome, forse il sentimento di non essere mai stato ciò che ho desiderato, ma di essere soltanto ciò che sono, in parte straniero a me stesso, in parte ospite indesiderato di un io ideale che non è mai esistito, e se esiste ancora, rimane acquattato in qualche angolo della mente, come uno stanco padrone di casa che non ama più ricevere visite e quando è costretto ad aprire la porta spera soltanto che gli ospiti se ne vadano presto per tornare agli inutili pensieri di sempre. (Giovanni Ricciardi, La canzone del sangue, Fazi, 2015)
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