martedì 12 maggio 2015

#LINK #IMPRESA&SOCIETA' / Giovani, altro che 'soft skills' (Sandro Catani)

... sono rimasto colpito da alcuni articoli apparsi sul Corriere della sera per la presentazione del libro La ricreazione è finita di Roger Abravanel e Luca D’Agnese. 
La diagnosi degli autori e di autorevoli esponenti  dell’economia è così riassunta: “La disoccupazione giovanile nel nostro paese ha cause ben più profonde e lontane della crisi economica. I ragazzi italiani non sono preparati al lavoro del ventunesimo secolo. E la scuola e l’università, con poche eccezioni, non riescono a insegnarlo”. 
Per risolvere il problema viene offerta la terapia delle cosiddette soft skill: “Meglio che i giovani acquisiscano approccio ai problemi, capacità di comunicare, intraprendenza piuttosto che imparare un mestiere, perché le aziende preferiscono essere loro ad insegnarne uno”.
A parte il titolo infelice (credo che i giovani non si siano accorti della festa!), le tesi del libro appaiono sbagliate nel merito e scorrette nei principi. A credere agli economisti, alla Bce, al governo, la storia è diversa: sono la mancanza di investimenti e consumi a generare disoccupazione. Una miopia cui si aggiunge una visione riduttiva della scuola e della sua funzione di apprendimento per le persone e i cittadini, accanto e dopo quella di preparazione al lavoro.

*** Sandro CATANI, consulente e saggista, Giovani, altro che soft skill. Meglio che si costruiscano un mestiere, blog 'ilfattoquotidiano.it', 10 maggio 2015

LINK, articolo integrale qui

2 commenti:

  1. Caro Massimo,
    grazie come sempre del tuo lavoro che ci permette di aver tanto materiale su cui riflettere.
    Ho letto e letto questo articolo, ma in questo caso non mi trovo d’accordo con le tesi di Sandro Catani.
    Come si dice i questo casi il tema è complesso e ogni punta di vista, anche giusto, non può essere estremizzato, però veniamo al punto. A volte si abusa delle soft skill, ma il tema di fondo “meglio che i giovani acquisiscano approccio ai problemi, capacità di comunicare, intraprendenza piuttosto che imparare un mestiere” mi pare importante. Magari cambierei la frase con “oltre che imparare un mestiere”. Ma il tema di fondo è che il concetto di mestiere, pensato come qualcosa di chiaro e ben definito, che studi una volta e poi lo migliori con tempo ma non cambia nella sostanza, non c’è più.
    Mi pare che questo bel video sulla scuola di ken robinson sintetizzi molto meglio di quello che potrei io la mia idea sulla scuola e competenze “trasversali”: http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=8&cad=rja&uact=8&ved=0CFAQtwIwBw&url=http%3A%2F%2Fwww.youtube.com%2Fwatch%3Fv%3DJTsVWYWWSn8&ei=IKZRVa-3O8TwUIemgOgD&usg=AFQjCNEO4gUlzHRsBbgR1qZZhfiWSOttYA&sig2=CcPOuJhrFFx1erTDJ3DW_g&bvm=bv.92885102,d.d24

    Catani ad un certo punto dice: “Forse gli industriali, che offrono soluzioni alla scuola, potrebbero concentrarsi più utilmente sul mestiere di un tempo, quello di intraprendere e di offrire lavoro.”
    Vero, però forse faticano a concentrarsi sul tema del lavoro proprio perché la scuola non gli aiutati e continuano a riproporre un tipo di lavoro e sviluppo che ormai non funziona più . Ci vorrebbe un “impresa diversa”, direbbe qualcuno.
    La scuola che insegna un mestiere va bene quando c’è un compito per la maggior parte esecutivo, chiaro e definito. Quando invece il lavoro richiede, responsabilità, rischio, collaborazione, ecc (riprendo gli aggettivi che avevi usato in precedente post) è fondamentale che la scuola lavori anche su queste competenze. E non si pensi che queste cose servano solo ai manager. Pensiamo al margine di discrezione che ha un operatore di un call center nel poter risolvere i problemi (ne ha molto di più di quello che sia pensa), o di un semplice aiuto cuoco in cucina.
    La battuta finale sul chirurgo chiacchierone poi oltre che banale mi pare anche falsa alla luce degli ultimi studi della medicina. Intanto l’eccessiva specializzazione della medicina (come di tante altre discipline) sta portando a tanti paradossi, per cui il medico è bravissimo a curare gli organi e le singole patologie perdendo di vista la persona. E invece ci sono anche studi che mostrano come un ottimo rapporto con i pazienti aiuto il corpo a guarire anche più velocemente (e gli aspetti intangibili influiscono su quelli tangibili).
    In generale la multidisciplinarietà e sempre più fondamentale: i mestieri si intrecciano: le frontiere della medicina per esempio mettono insieme fisici , medici, biologi. Su questo tema mi è capitato di lavorare e sono inaspettati i problemi a cui , per esempio, si trova di fronte un anestesista che deve decidere sulla morte o meno di un paziente. Una volta era semplice, ma ora con le macchine tu puoi sostituire tutte le parti vitali del corpo e continuarlo a tenere in vita. Ma cos’è che possiamo definire vita? E’ meglio tentare il tutto per tutto o lasciare la persona che viva gli ultimi giorni a casa con i suoi familiari?
    Qual è lo scopo di un medico? Non può essere vincere la morte, perché questo è un obiettivo decisamente irrealistico, anche se la tecnologia da un senso di onnipotenza nuovo.
    Insomma i chirurghi hanno bisogno di tante competenze che psicologi, filosofi, sociologi, dovrebbe fornire (e viceversa chiaramente, perché la multidisciplinarietà va in tutti i sensi).
    Detto questo è chiaro che a volte le soft skill sono enfatizzate in modo errato da troppi consulenti che seguono solo le mode del momento, ma anche denigrarle come fa Catani non mi pare corretto.
    Stefano Pollini

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  2. Caro Stefano, grazie per l'intervento e per la segnalazione del video.
    Banalmente.
    Io credo che la scuola, che non deve essere una 'dependance' della Confindustria, debba 'formare', oltre che 'istruire' (dare le istruzioni di base perché l'essere umano si costruisca le conoscenze di base), e non debba 'addestrare', né 'al lavoro' (singolare), né, peggio ancora (dati i cambiamenti in atto e futuri), 'ai lavori' (plurale).
    Non entro nel dibattito sulle 'soft skills': che pure mi paiono sempre più indispensabili per vivere/convivere (oltre che per lavorare). Resto caparbiamente, usando l'italiano, al mio tormentone che mi porto appresso da una vita e che riassumo nel binomio 'pensiero critico' (per la verità, l'aggettivo potrebbe pure essere tolto: perché altrimenti, che pensiero sarebbe? Ma poiché 'abbondare è meglio che far mancare', aggiungiamolo pure: 'critico'. E scriviamolo a tutte maiuscole).
    Questo (la 'formazione al pensiero critico') credo dovrebbe essere il tratto distintivo di una scuola che sia scuola.
    Una scuola, quindi, possibilmente pubblica e laica.
    Punto.
    Temo che questa banalità sia sempre più un'utopia.

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