Da anni vado 'combattendo' contro l'uso doppio e manipolatorio del verbo condividere.
Che piace. Molto.
Dappertutto, e specie sul lavoro: nelle multinazionali, ad esempio, un minuto sì e l'altro pure si invita il collaboratore o il collega a 'condividere': “se hai un momento, volevo condividere con te...”
Credo urga un chiarimento. Sul complemento oggetto del verbo.
Che rimane sempre, talvolta inconsapevolmente ma più spesso intenzionalmente, nel vago.
Infatti, si può condividere un processo per arrivare a un risultato. Oppure, più semplicemente, ci si può limitare a condividere un risultato.
Nel primo caso, la persona che condivide è attiva: partecipa alla costruzione del risultato.
Nel secondo caso è passiva: apprende, alla fine, durante il momento appunto della condivisione, il contenuto del risultato, che è prodotto altrove, senza il suo contributo.
Mi pare una differenza non da poco: tutta sostanziale e per nulla formale.
Nella seconda accezione, il verbo ‘condividere’ è sinonimo del più chiaro e netto ‘ti informo’.
Magari l’informazione di cui decido di mettere a parte l’altro è importante e riservata: e quindi, la condivisione assume, in questo caso, un rilievo particolare. Ma è evidente che, se l’altro non partecipa al processo di elaborazione del risultato, la pura condivisione di un risultato, per quanto rilevante e privilegiato esso sia, ha meno valore di quanto avrebbe una partecipazione attiva alla sua costruzione.
Insomma: dovrebbe esser evidente che nel caso in cui il processo non viene condiviso il termine appropriato, e non manipolatorio, per indicare un coinvolgimento dell'altro rimanda ad una più semplice e meno impegnativa consultazione: ascolto le tue esigenze, prendo atto delle tue proposte, poi decido e ti faccio sapere.
Banale. Eppure.
Gli elementi che abbiamo sulla vicenda della elezione del nuovo presidente della Repubblica ci dicono che siamo in presenza di questo equivoco. Voluto, peraltro: perché non risolto, ma tenuto in piedi proprio perché utile.
Al di là della discussione sui contenuti del patto del Nazareno (solo riforme o anche nome del presidente della repubblica), quel che è certo è che il dichiarato ripetuto di Renzi ha sempre fatto riferimento al termine ‘condivisione’. Diceva di voler ‘condividere’ il processo di definizione della candidatura con tutti, addirittura. Ma sicuramente con Berlusconi: l'interlocutore privilegiato di un anno intero di lavoro insieme.
E l’uso di questo termine, come al solito, autorizzava a pensare, tutti e in primis Berlusconi, che si sarebbe condiviso il candidato: scegliendolo insieme. E non semplicemente venendo informati a cose fatte.
Sia chiaro. Sono antiberlusconiano da prima che Berlusconi ‘scendesse in campo’. Perché mi pareva di una evidenza solare che, dato il personaggio, sarebbe accaduto quello che poi è accaduto e che da oltre vent'anni continua ad accaderci (anche per responsabilità nostra: che continuiamo a non essere capaci di liberarci di questo perverso modello culturale-politico tanto simile all'italiano medio). Dunque, non ho alcuna ragione per difendere un maestro di inganni che ora urla all’inganno.
Semplicemente, non mi piacciono gli inganni. Chiunque li commetta. E l’episodio conferma che spesso è difficile distinguere tra maestri e allievi e che entrambi si superano a vicenda.
Del resto, per Renzi, nulla di nuovo sotto il sole. Dopo la promessa che mai sarebbe diventato premier senza passare dalle urne e la ripetuta assicurazione a Letta di ‘stare sereno’, non poteva mancare l'utilizzo del verbo ‘condividere’ nella sua forma più subdola e manipolatoria: del tipo ‘ti informo a decisione presa dopo averti fatto credere che avremmo costruito insieme la decisione'.
Il vecchio adagio ripete che non c’è due senza tre. Ma ci sono persone, devoti alla filosofia dei 'vincenti', che sanno vincere anche gli adagi. E sono sicuro che sono capaci di andare oltre il tre.
Io continuo a sognare, sempre più solitariamente, una politica seria: onesta, trasparente, che non prenda in giro nessuno. Dove il fine non giustifichi i mezzi. Anche quando il fine, come in questo caso, almeno per quanto mi riguarda, piace e conviene.
Perché credo che per fare il bucato ci voglia acqua pulita. E l’acqua sporca, mi pare un dato inconfutabile, non può che fare un bucato sporco. (mf)
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