Pierluigi CELLI, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani"
Codice Edizioni, 2016
pagine 238, € 15,00, formato ebook € 5,99
Più vizi che virtù
Pierluigi Celli è stato un protagonista di primo piano del mondo dell'impresa di questi anni.
Può vantare un curricolo variegato in posizioni di top management in grandi aziende e organizzazioni, pubbliche e private; ed è un saggista fecondo, che ha più volte offerto in meditazione critica la sua esperienza lavorativa.
Non fa eccezione questo suo ultimo volume, Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani. Un libro non banale per i contenuti e originale per il taglio compositivo, in cui la forma saggistica si mescola felicemente con quella narrativa.
I due piani corrono paralleli, con passaggi alternati. Cambia la scelta espositiva e mutano anche i linguaggi: più sofisticato ed elaborato quello saggistico, più leggero, ironico e scanzonato quello narrativo.
Resta invece, comune, la provocatorietà dell'approccio, che tra i vizi e le virtù fa nettamente prevalere, nella tonalità generale, i primi sulle seconde, lasciando in chi legge la sensazione che le ombre si siano mangiate quasi interamente quella poca luce che rimane.
Mi pare che l'intenzione sia voluta: anche quando l'enfasi caricaturale pare eccedere nella illustrazione di 'idealtipi' umani negativi, sia a livello di capi che di collaboratori, l'obiettivo dell'autore, perseguito con ostinazione e ricchezza di dettagli, è quello di scuotere il lettore, inducendolo a pensare; e magari (sperabilmente), se chi legge sta sperimentando la fatica, e spesso le assurdità, del vivere organizzativo, per giunta dall'alto di posizioni di potere e responsabilità, costringerlo a qualche sana e violenta autocritica.
Sì, perché l'analisi è impietosa: precisa, minuziosa, e chi ha esperienza del mondo delle imprese, specie di grandi dimensioni, ci si ritrova. Scava in profondità e, per questo, forse, è fastidiosa; ma è argomentata, difficilmente contestabile, fatti salvi alcuni eccessi, che paiono voluti per marcare meglio le assurdità, i paradossi, le inefficienze. E basta leggere i titoli di alcuni capitoli. Come 'i vizi capitali del management': egocentrismo, arroganza, familismo, invidia, avidità, ignavia, miopia, vendetta. E, più oltre, dopo qualche divagazione in chiave di 'fiction' che per la verità ha ben poco di divagante, il capitolo su 'le virtù obsolete': rispetto, buon umore, generosità, cura, coraggio, equità, ritiro.
Insomma: ombre su ombre, ad essere moderati.
Ma, almeno per Celli, questa non è una novità. Ritornano infatti, ancora più insistentemente pungolanti che in altre occasioni (libri, articoli, convegni), pensieri acuti e taglienti, frutto di una visione che non intende concedere indulgenza, ma che si intuisce sorretta da un'etica forte e mai abbandonata: e tuttora, al termine di una carriera brillante, rimasta appassionata.
Tuttavia, anche se lo sguardo è certamente valutativo, va detto che sembra assente ogni compiacimento cinico nel descrivere aspetti tanto desolanti, e finanche inquietanti, della realtà lavorativa italiana. Non si intravvede, tra le pagine, il dito accusatorio di chi si sente esterno e innocente. Anzi, si intuisce il vissuto partecipe, e in qualche modo anche 'sofferente', di chi 'deve' rilevare ciò che accade. E peraltro questo è il prezzo da pagare se si ha come fonte e guida esclusiva il materiale fornito dall'esperienza diretta e non ci si vuole appoggiare a qualche teoria organizzativa preconfezionata che legga i fatti al posto nostro, magari comodamente piegandoli dentro un'ottica rassicuratoria.
Certo, mettendo insieme dati di realtà e brevi invenzioni narrative, che alleggeriscono la realtà nella forma, ma addirittura la rendono ancora più perturbante nella sostanza, c'è da chiedersi se restano squarci di speranza.
Qui ognuno, anche in base alla sua esperienza, oltre che alla quantità di 'pensiero positivo di cui (ancora) dispone, può decidere.
A questo proposito, però, può essere utile riportare alcune righe di 'post scriptum' con cui Celli mette punto alla sua indagine.
Ci sono i ringraziamenti d'obbligo ad alcuni manager con cui l'autore ha lavorato. Non sono molti, ma la citazione non sembra rituale: soltanto una decina sono quelli riconosciuti come esemplari. E il commento che chiude il libro pare non chiudere del tutto il futuro: «Loro per me restano il volto apprezzabile di una professione che può ancora essere presentata ai più giovani con la certezza di non offrire modelli adulterati.»
Si può concordare o meno sui nomi specifici dei manager citati da Celli, ma il valore degli esempi è indiscutibile e potente: se nessun modello può agire al posto nostro, avere modelli positivi è indispensabile per cambiare cultura: nostra o del contesto. Credo che ognuno, pensando alla sua esperienza o alle sue conoscenze, possa rintracciare qualcuno cui ispirarsi. E finché questo è possibile, qualche cambiamento, se si vuole, è possibile.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
«
L’arroganza dei capi, alla lunga, è un vero attentato alla tenuta delle imprese. Concentrando ogni potere, ogni decisione e, in definitiva, ogni autonomia di pensiero al vertice, tutti gli altri vengono deresponsabilizzati dal partecipare. A raccogliere i risultati sarà solo chi si è ritagliato per sé il ruolo di unico depositario del destino futuro di tutti; per altro, senza sentirne veramente la responsabilità né offrendo garanzie.
L’esperienza di tanti anni in azienda può confermare, infatti, che molti degli insuccessi e delle défaillance organizzative delle imprese sono attribuibili a manager ambiziosi che hanno tradotto un normale sentimento, e un’aspirazione positiva come l’ambizione, in comportamenti autoassolutori e potenzialmente distruttivi.
Il capo arrogante non ha legami positivi con gli altri, non valorizza i collaboratori se non in funzione del suo aumento di potere e così facendo disarticola il tessuto di relazioni umane che stanno alla base dell’operatività quotidiana della sua struttura. Ma, soprattutto, fidandosi della costruzione che lui stesso fa del mondo che lo circonda, sull’onda delle certezze che si rafforzano artificialmente data l’assenza di un possibile contraddittorio, finisce quasi sempre, alla lunga, per prendere degli abbagli, selezionando le informazioni che sorreggono la sua visione delle cose e non vedendo più con lucidità quale sia la realtà.
L’arrogante, arroccato nel suo potere, ha più di un tratto in comune con il tipo del paranoico patologico. L’individuo potente e quello paranoico sembrano condividere alcuni aspetti caratteriali e pensieri simili: ciò che esiste ruota attorno alle loro vite, che sono allo stesso tempo problematiche e rischiose e dove si intrecciano manie di grandezza e angoscia per le minacce incombenti sulla loro posizione. Sentendosi (o convincendosi di essere) invulnerabile, il paranoico va alla ricerca dei propri avversari, non concependo altro rapporto che non sia di supremazia, e finisce con lo spiare segnali di pericolo che vede solo lui, arrivando anche a costruirli sulla base di indizi che non hanno nulla a che fare con delle reali minacce alla sua posizione.
(Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
La miopia manageriale è un vizio di corto respiro che mette a nudo anime aride e competenze insicure del mestiere o incerte sul proprio futuro. Vige la presunzione che “meno ci si impiccia” più si possa essere apprezzati, se non altro per il fatto che “si sa stare al mondo”. E oggi, coi tempi che corrono e i cambiamenti che incombono, veloci e voraci, il tentativo di nascondersi a molti appare come la scelta migliore per riuscire a salvarsi. Non vedere, in fondo, è una difesa della propria responsabilità e, sottraendosi, si cerca lo spazio per lavorare al coperto, così da confondere anche lo sguardo altrui. (Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
“Avere rispetto” oggi è spesso una condizione perdente, è visto come un atteggiamento arrendevole e indifeso, quasi una profezia negativa destinata ad autoavverarsi sui terreni infidi della carriera e, come tale, qualcosa da non considerare, essendo ben altri gli appigli della crescente presunzione di sé, con la spinta “ad arrivare” ad ogni costo, nella convinzione che per vincere non servano scrupoli né principi. (Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
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L’arroganza dei capi, alla lunga, è un vero attentato alla tenuta delle imprese. Concentrando ogni potere, ogni decisione e, in definitiva, ogni autonomia di pensiero al vertice, tutti gli altri vengono deresponsabilizzati dal partecipare. A raccogliere i risultati sarà solo chi si è ritagliato per sé il ruolo di unico depositario del destino futuro di tutti; per altro, senza sentirne veramente la responsabilità né offrendo garanzie.
L’esperienza di tanti anni in azienda può confermare, infatti, che molti degli insuccessi e delle défaillance organizzative delle imprese sono attribuibili a manager ambiziosi che hanno tradotto un normale sentimento, e un’aspirazione positiva come l’ambizione, in comportamenti autoassolutori e potenzialmente distruttivi.
Il capo arrogante non ha legami positivi con gli altri, non valorizza i collaboratori se non in funzione del suo aumento di potere e così facendo disarticola il tessuto di relazioni umane che stanno alla base dell’operatività quotidiana della sua struttura. Ma, soprattutto, fidandosi della costruzione che lui stesso fa del mondo che lo circonda, sull’onda delle certezze che si rafforzano artificialmente data l’assenza di un possibile contraddittorio, finisce quasi sempre, alla lunga, per prendere degli abbagli, selezionando le informazioni che sorreggono la sua visione delle cose e non vedendo più con lucidità quale sia la realtà.
L’arrogante, arroccato nel suo potere, ha più di un tratto in comune con il tipo del paranoico patologico. L’individuo potente e quello paranoico sembrano condividere alcuni aspetti caratteriali e pensieri simili: ciò che esiste ruota attorno alle loro vite, che sono allo stesso tempo problematiche e rischiose e dove si intrecciano manie di grandezza e angoscia per le minacce incombenti sulla loro posizione. Sentendosi (o convincendosi di essere) invulnerabile, il paranoico va alla ricerca dei propri avversari, non concependo altro rapporto che non sia di supremazia, e finisce con lo spiare segnali di pericolo che vede solo lui, arrivando anche a costruirli sulla base di indizi che non hanno nulla a che fare con delle reali minacce alla sua posizione.
(Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
La miopia manageriale è un vizio di corto respiro che mette a nudo anime aride e competenze insicure del mestiere o incerte sul proprio futuro. Vige la presunzione che “meno ci si impiccia” più si possa essere apprezzati, se non altro per il fatto che “si sa stare al mondo”. E oggi, coi tempi che corrono e i cambiamenti che incombono, veloci e voraci, il tentativo di nascondersi a molti appare come la scelta migliore per riuscire a salvarsi. Non vedere, in fondo, è una difesa della propria responsabilità e, sottraendosi, si cerca lo spazio per lavorare al coperto, così da confondere anche lo sguardo altrui. (Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
“Avere rispetto” oggi è spesso una condizione perdente, è visto come un atteggiamento arrendevole e indifeso, quasi una profezia negativa destinata ad autoavverarsi sui terreni infidi della carriera e, come tale, qualcosa da non considerare, essendo ben altri gli appigli della crescente presunzione di sé, con la spinta “ad arrivare” ad ogni costo, nella convinzione che per vincere non servano scrupoli né principi. (Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
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