Come già il precedente, anche quest'ultimo film di Checco Zalone ha diversi livelli di lettura e accanto alle battute più semplici - o forse grazie a esse - trasporta qualche chilo di riflessioni politiche e sociologiche.
In "Sole a catinelle" venivano a galla temi come la crisi economica, le fabbriche che chiudono, gli operai licenziati, il bivio tra la schiavitù del lavoro dipendente più basso e la bolla del mitico "free agent", i consumi inutili ma di status che fanno esplodere l'indebitamento familiare, la finanziarizzazione selvaggia delle attività industriali, gli intrecci tra finanza, malavita dei colletti bianchi e massoneria, la desertificazione dei centri minori di campagna: e, alla fine, l'uso quasi disperato della famiglia come ultimo welfare rifugio. La levità del film e il finale lieto non nascondevano né le denunce in questione né una sostanziale amarezza di fondo.
"Quo Vado?" invece è un film molto più ottimista: sulla possibilità di resilienza alle grandi mutazioni in corso e sulle chance di trasformazione interiore sia del singolo sia della società.
Forse anche in questo, oltre che in tutto il resto, c'è la chiave del suo successo: si esce con la speranza di farcela, a superare questo grande passaggio; con l'idea che forse ciascuno di noi può arrivare all'altra sponda non solo vivo, ma più felice e addirittura migliore dentro.
Chi è lo Zalone di "Quo Vado"?
All'inizio, un felice e conformista impiegato statale che sguazza nella piccola corruzione paesana - una quaglia per un timbro - e nel clientelismo ambientale, quella sottocultura in cui per sistemarsi ci si affida all'angelo custode che sta in Parlamento. Mammone all'inverosimile e decisamente bamboccione - a quasi quarant'anni vive ancora dai suoi - a un certo punto è però costretto dal cambiamento dei tempi a emanciparsi.
Emanciparsi non solo dai minuscoli privilegi del suo impiego, ma anche dal luogo natio (ormai siamo tutti neonomadi, bellezza) e a poco a poco anche dalle sovrastrutture culturali che addobbavano l'impianto nel quale era nato e cresciuto: i clacson che suonano invano, le auto in seconda fila, la legge del più forte che vige in Italia quando si guida; ma anche la diffidenza per l'altro da sé, sia esso dovuto a un'altra pigmentazione epidermica o a un diverso orientamento sessuale.
Alla fine, la rinuncia al posto di lavoro - crudelmente richiestagli per tutto il film da una rampante dirigente ministeriale che potrebbe essere ugualmente berlusconiana o renziana - simboleggia l'avvenuto addio del protagonista alla Prima repubblica, quella in cui a fine anno arrivava sempre la tredicesima e si andava in pensione poco più che ragazzi, ma questo si otteneva solo per scambio politico e finiva per inquinare anche le relazioni affettive (la ragazza che vuole sposarlo solo perché ha un impiego sicuro).
Lo Zalone di "Quo Vado?" ce la fa, alla fine, seppur dopo mille traversie al gelo del Polo nord o tra i clan delle mafie nostrane. Ce la fa perché la sua condizione esistenziale al termine della storia è molto più felice di quella iniziale, perché è migliorato come uso del tempo della sua vita, come autenticità affettiva e come valori interiori (non solo le code che il nostro impara a rispettare educatamente, ma anche la donazione di medicinali a una Ngo)
Ecco perché questo è un film ottimista: dice a ciascuno di noi di non aver paura dei grandi cambiamenti e dalla polverizzazione del vecchio modello sociale - perché se ne può uscire meglio di prima.
È vero, questo, nella cronaca e nella storia di questi anni?
No, naturalmente, purtroppo: non per tutti, anzi, e almeno non per ora. Ma ci piace sentircelo dire e anche questo è, appunto, uno dei segreti del successo del film.
Che sarebbe sciocco ridurre a peana entusiasta dei cambiamenti in corso - in fondo, solo lui tra tutti suoi colleghi è colpito dalla spending review e l'abolizione della province si rivela una beffa - ma suggerisce che in questo grande e velocissimo caos c'è la possibilità non solo di sopravvivere ma anche di stare meglio, dopo.
Di buono, poi, c'è che la strada qui ipotizzata perché questo accada non è la corsa ipercompetitiva propria dei "tempi moderni", ma un processo di trasformazione interiore che anzi da questa corsa si chiama fuori e va verso altro.
Quasi una terza strada tra il fancazzismo clientelare di provenienza e il modello che da questo fancazzismo lo costringe a uscire.
*** Alessandro GIGLIOLI, giornalsita e saggista, La resilienza secondo Zalone, blog 'piovono rane', 'L'Espresso', 4 gennaio 2016, qui
In Mixtura 1 altro contributo di Alessandro Giglioli qui
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