Quando è arrivato l’sms, ero concentrato sulla biochimica. Ho letto: «Mi dispiace tantissimo per Cecil. Viveva vicino a casa tua, nello Zimbabwe?». «Chi è Cecil?», mi sono chiesto. Quando poi ho scoperto che il messaggio riguardava un leone ucciso da un dentista americano, il bambino che è dentro di me, cresciuto in un villaggio dello Zimbabwe, istintivamente ha esultato: «Evviva, un leone in meno che minaccia la mia famiglia!». Ma gli americani che firmano le petizioni sanno che i leoni sterminano le persone? Nel mio villaggio nello Zimbabwe, nessun leone è mai stato amato, e tantomeno ha ricevuto un nomignolo affettuoso. Nello Zimbabwe si ha terrore dei leoni.
Quando avevo nove anni, un leone solitario faceva incursioni e razziava i villaggi nei dintorni del mio. Hanno messo in guardia noi bambini, obbligandoci ad andare a scuola in gruppo e a smettere di giocare all’aperto. Le mie sorelle non potevano più recarsi al fiume da sole a prendere l’acqua o lavare i piatti. Il leone ha inghiottito la vita del nostro villaggio: nessuno poteva più socializzare accanto al fuoco, di notte.
Quando finalmente è stato ammazzato, a nessuno è interessato se il suo uccisore fosse uno del posto o un cacciatore bianco amante di trofei, se lo avesse fatto fuori con i bracconieri o con tanto di licenza di caccia. Abbiamo danzato e cantato perché una belva tanto temuta era scomparsa.
Non fraintendetemi: per noi zimbabwani, gli animali selvatici hanno un significato quasi mistico. Apparteniamo a clan e ciascun clan ha un animale totemico protettore come proprio antenato mitologico. Il mio è Nzou, l’elefante, e per tradizione non posso mangiare carne di elefante, perché sarebbe come consumare la carne di un consanguineo. Ai miei occhi di zimbabwano la tendenza degli americani a rendere romantici gli animali a cui si è dato un nome e a saltare sul treno degli hashtag hanno trasformato in un circo dell’assurdo una situazione del tutto ordinaria: negli ultimi dieci anni i leoni ammazzati legalmente sono stati 800 e a farli fuori sono stati sempre stranieri facoltosi, disposti a sborsare cifre esorbitanti per dimostrare tutto il loro coraggio.
Adesso Peta chiede che il cacciatore sia impiccato. Gli americani, che non riescono neppure a individuare lo Zimbabwe su una carta geografica, plaudono alla domanda di estradizione del dentista cacciatore, inconsapevoli del fatto che per il banchetto in onore dell’ultimo compleanno del nostro presidente è stato trucidato un cucciolo di elefante. A noi zimbabwani non resta che scuotere la testa, e chiederci perché agli americani stiano maggiormente a cuore gli animali africani delle persone africane.
Per favore, non mi presentate le condoglianze per Cecil, a meno che non siate disposti a farmele anche per gli abitanti dei villaggi dilaniati o lasciati a morire di fame dai suoi simili, dalla violenza politica, dalla carestia.
*** Goodwell NZOU, studente dello Zimbabwe, Io, africano vorrei lacrime per chi muore di fame, traduzione di Anna Bissanti, 'la Repubblica', 7 agosto 2015.
° ° °
Sono più che d'accordo con lo studente africano Goodwell Nzou.
In Mixtura, sul leone Cecil, ho diffuso l'altro giorno lo #spillo intitolato Chi vince, chi perde e chi è peggio di una bestia: lo trovate qui
Anche adesso, dopo le parole di Nzou, non toglierei una virgola.
Perché quella uccisione (come infinite altre che non arrivano ai media), tra l'altro avvenuta con l'inganno, è una metafora di ciò che (troppo spesso) noi siamo. Il leone non è stato ucciso in difesa di un villaggio: come avrebbe fatto un africano. Ma perché un occidentale straricco potesse mostrare il proprio comportamento in 'erezione' tra i trofei di casa.
Però firmerei subito le ultime righe dello scritto di Nzou:
«Per favore, non mi presentate le condoglianze per Cecil, a meno che non siate disposti a farmele anche per gli abitanti dei villaggi dilaniati o lasciati a morire di fame dai suoi simili, dalla violenza politica, dalla carestia».
Aggiungerei solo che le condoglianze, da parte di noi occidentali, per gli esseri umani africani che muoiono, sono 'facili' e non bastano.
Ci vuole altro.
Anche se, lo so, noi occidentali non solo non facciamo 'altro', ma neppure sappiamo fare le condoglianze. (mf)
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