Che relazione possiamo rintracciare tra le conclusioni a cui sono arrivati i ricercatori del nuovo grande studio sulla schizofrenia condotto recentemente negli Stati Uniti e le ricerche di uno psicoanalista Austriaco del secolo scorso?
Era il 1945 e uno psicoanalista austriaco, naturalizzato negli Stati Uniti, René Spitz, era alle prese con un problema di cui non riusciva a comprendere bene molti aspetti. Stava osservando due gruppi di bambini, il primo era costituito da figli di donne detenute in un carcere femminile, che avevano la possibilità di accudire personalmente i loro figli in un asilo nido vicino alla struttura. Il secondo era composto da bambini abbandonati e ricoverati in un brefotrofio. Spitz notò che in entrambi i casi i bambini venivano adeguatamente nutriti e curati dal punto di vista igienico, eppure nel secondo gruppo, malgrado la presenza di operatrici competenti e disponibili, i bambini presentavano un quadro clinico preoccupante.
Molti di essi non crescevano regolarmente: soffrivano di evidenti ritardi nello sviluppo cognitivo e motorio, nonché di un marcato abbassamento delle difese immunitarie. Il 37,3% di essi morì entro il secondo anno di vita.
Sono certo che anche gli autori della recente ricerca statutinense Recovery After an Initial Schizophrenia Episode (RAISE) che hanno dimostrato che abbassare il dosaggio degli psicofarmaci a vantaggio della relazione psicoterapeutica abbassa i sintomi e migliora la qualità della vita delle persone schizofreniche, siano partiti dalla medesima domanda che 60 anni prima si era posta il loro collega Spitz, ovvero quali sono gli elementi che maggiormente contribuiscono alla cura di persone con grave disagio psichico?
Spitz scopri che la differenza tra i due gruppi di bambini risiedeva nel fatto che il primo gruppo oltre alle cure standard, riceveva anche una relazione esclusiva, non anonima, affettuosa e profonda da una persona cara. Anche la ricerca condotta dal National Institute of Mental Health (NIMH), in qualche modo, arriva alle medesime conclusioni, ovvero che ridurre gli psicofarmaci, con conseguente limitazione degli effetti collaterali, fare una diagnosi precoce, aumentare gli interventi di sostegno psicologico e assistenza ai familiari e, soprattutto, aumentare gli incontri di psicoterapia producono una efficacia maggiore che la sola somministrazione dei farmaci antipsicotici.
In sintesi in entrambi i casi l’ingrediente segreto per una riduzione considerevole del disagio, era l’instaurarsi di una buona relazione, materna nel primo caso, terapeutica nel secondo.
Proviamo a soffermarci un attimo su questo aspetto, limitandoci alla specie umana (ma praticamente è lo stesso per quasi tutte le specie viventi), per generare la vita è necessario l’incontro di due elementi, un ovulo ed uno spermatozoo; durante la gestazione il bambino cresce grazie alla relazione con la propria madre e al nutrimento e calore che riceve da essa. Quando nasce, il piccolo dell’uomo (e della donna) non potrebbe sopravvivere da solo, ha bisogno delle cure genitoriali. Cresce attraverso una relazione; impara a riconoscere i cibi, camminare, parlare, attraverso il rapporto con l’altro; si costruisce la propria identità sempre attraverso la relazione con le persone significative della propria vita. Quando cresce, quasi tutti i suoi successi o disagi pre e adolescenziali si sviluppano a seguito di aspetti relazionali: con gli amici, nelle prime relazioni amorose, con gli adulti ecc. Questo vuol dire che nasciamo, cresciamo e viviamo sempre immersi nell’altro e purtroppo è così anche in senso negativo: ci ammaliamo a causa delle relazioni sbagliate, disturbate e/o violente. Se tutto questo è vero anche la cura non può prescindere da questo ingrediente fondamentale. E qui entra in gioco la psicoterapia che, a mio avviso, prima ancora di essere una tecnica con specifici interventi è una relazione tra due esseri umani.
Capita molto spesso che una persona che inizi un percorso psicoterapeutico racconti che nella sua vita non si sia mai sentita ascoltata veramente, tutti a darle consigli, dire cosa è giusto e cosa sbagliato, chiedere e pretendere da lei, ad obbligarla ad essere presente ed ascoltare bisogni di altri. Immaginate la bellezza di una situazione esattamente contraria, di essere finalmente in un luogo nel quale si può dire quello che si vuole, fino in fondo, raccontare allo psicoterapeuta la propria storia, senza essere giudicati da lui, senza le interruzioni di qualcuno che dica, che questo è buono e quest’altro no. Un ascolto pulito, vero. E così capita spesso, più di quanto si possa immaginare, che già dai primi colloqui molte persone iniziano a raccontare allo psicoterapeuta segreti della propria vita che non hanno mai detto a nessuno. Certamente lo fanno perché quel luogo è protetto dal segreto professionale, è un luogo “segreto”, quasi un nascondiglio, magari lontano dalla dimensione familiare e quindi adatto a depositare segreti e non detti, ma secondo me lo fanno anche perché qualcuno li sta ascoltando realmente, ed è interessato in modo non giudicante alla loro storia.
L’intero ciclo di vita si basa profondamente sulla relazione con l’altro, posso immaginare che persino la morte avvenga in modo relazionale, o almeno così può sembrare, forse in relazione profonda con qualche persona importante, con Dio, chi può dirlo! Anche se forse ha ragione Fabrizio De Andrè quando cantava ne “Il testamento”:
“Cari fratelli dell’altra sponda, cantammo in coro già sulla terra, amammo tutti l’identica donna, partimmo in mille per la stessa guerra, questo ricordo non vi consoli quando si muore si muore si muore soli, questo ricordo non vi consoli quando si muore si muore soli…” (De Andrè, Il testamento)
*** Sergio STAGNITTA, psicologo e psicoterapeuta, Qual è l’ingrediente segreto di una buona psicoterapia?, 'L'Espresso', 2 gennaio 2016, qui
Doriano SOLINAS, disegnatore
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