(...) Se c'è un momento in cui una persona intelligente appare irrimediabilmente stupida è quando pretende di sollevarsi sulla massa, per esempio quando Heidegger sostiene che «chi pensa in grande può anche errare in grande», o quando Valéry apre M. Teste con un madornale «La stupidità non è il mio forte». Da questo punto di vista, l'imbecillità di élite (quella che per esempio si manifesta nei "centri di eccellenza" che sono fioriti in una università devastata qualche anno fa) sembra ancora più acuta dell'imbecillità di massa. Quest'ultima, però, ha dalla sua il peso della quantità, e, come diceva Hegel (altro filosofo in cui si può trovare una quantità di affermazioni stupide), il quantitativo trapassa necessariamente nel qualitativo.
Per verificarlo, basterà leggere Nello sciame. Visioni del digitale del filosofo coreano naturalizzato tedesco Byung-Chul Han appena tradotto da Nottetempo. Una filippica contro il digitale basata sulla contrapposizione (in sé non meno inconsistente di «la stupidità non è il mio forte») tra l'informazione «cumulativa e additiva» e la verità «esclusiva e selettiva».
Al digitale vengono imputati tutti i mali del mondo: egoismo, liberismo, nichilismo, coazione, oscenità, calo del desiderio, ma anche cose un po' speciali come il fatto che (i corsivi sono dell'autore), diversamente dall' Iliade , «l'indignazione digitale non è cantabile», o che oggi viviamo «in un tempo di morti viventi, nel quale non solo l'esser-nati ma anche il morire sono divenuti impossibili ». Anche il gomito del tennista dipende dal digitale? No. Tuttavia Byung-Chul Han ci va vicino quando parla di «artrosi digitale delle dita» (che sarebbe risultata fatale a Heidegger dal momento che, scrive altrove Byung-Chul Han, «la mano di Heidegger pensa invece che agire»). Malgrado questa menomazione, nel digitale «Dispongo dell'Altro come se lo tenessi tra il pollice e l'indice». (...)
Del 10 giugno 1940 ci rimane il testo, espressione di imbecillità di élite, di Mussolini, che si spinge sino a precisare che dichiara guerra a Francia e Inghilterra ma non alla Svizzera o alla Turchia, e l'immagine dell'imbecillità di massa della folla plaudente ed esaltata. Oggi avremmo milioni di post e di tweet, variazioni del discorso dell'imbecille di élite, magari aggravate dal fatto che, per quanto imbecille, Mussolini lo era molto meno di tanti altri accorsi in Piazza Venezia.
Questa circostanza, per assurdo che possa sembrare, ha un versante positivo, su cui vorrei portare conclusivamente l'attenzione. L'imbecillità iper-documentata rende radicalmente impossibile farsi illusioni sul genere umano, e concretamente su ognuno di noi. Illusioni che sono alla base di programmi di palingenesi sociale miseramente falliti, appunto perché muovevano dall'assunto che l'umanità fosse meglio di quella che è.
Per aiutare l'umanità, per migliorare ognuno di noi, bisogna partire dall'assunto inverso, quello della prevalenza di Genny ‘a carogna. E ciò che un tempo era riservato a pochi, che si chiudevano in stanza la notte a leggere Tito Livio per conoscere le debolezze umane, oggi è disponibile, direbbe Byung-Chul Han, «tra il pollice e l'indice», e insegna da solo più di Montaigne e di Spinoza. Ed è per questo che, venuto meno il sogno della intelligenza collettiva con cui si era salutato l'avvento del digitale, conviene giocarsi la carta della imbecillità di massa come fonte di insegnamento e di ammonimento.
*** Maurizio FERRARIS, filosofo, saggista, Che cosa insegna l'imbecillità di massa, intervento al festival della Letteratura breve, Tuscania, 16 luglio 2015, 'la Repubblica', 16 luglio 2015.
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