Avrò avuto tre anni. Quattro, forse.
Era domenica ed eravamo in collina in una di quelle tipiche gite primaverili anni Settanta. Magari quelle uscite si fanno anche oggi, non so. Ma ai tempi i genitori erano tutti un po' più fricchettoni, il plaid a quadri era sempre in macchina che non si sa mai, e durante i festivi ci si ritrovava spesso in aperta campagna a mangiare uova sode e panini coi sottaceti. O ad abbrustolire qualche salsiccia sulle pietre.
In quelle domeniche assolate e tenui i grandi stavano stravaccati nell'erba a fare discorsi per noi incomprensibili, bevendo birra in lattina o vino rosso imbottigliato in casa e fumando troppe sigarette. Noi bambini giocavamo liberi, di una libertà che oggi sembra strana e diversa, a pensarci. Si correva scalzi nei prati, ci si arrampicava sui mucchi di sassi e sugli alberi. Si cadeva e ci si rialzava, senza troppi piagnistei, le ginocchia sbucciate erano di repertorio. E poi, immancabile, il pallone. Il Supertele di plasticona, rigorosamente rosso, che quando lo calciavi un po' forte prendeva delle traiettorie che manco Platini.
Io ero un bambino solitario e testardo – un po' come adesso – e stavo attraversando la tipica fase di appropriazione indebita del mondo e delle cose. Tutto ciò che toccavo era *mio* – che poi, a pensarci bene, forse è proprio questo il bello di essere bambini.
"È mio! È mio!" gridavo a ogni piè sospinto. E mio padre, anarco-comunista della prima ora, che di nome si chiamava come il Che e al figlio aveva dato il secondo nome di Fidel (ebbene sì), si vergognava come un ladro ad avere un bimbo che contraddiceva tutti i dettami della libera convivenza socialista.
"È mio!" gridavo fiero e inascoltato agli alberi, ai sassi, al cielo, alle biglie colorate, ai giocattoli di mia sorella. E il babbo che mi strappava tutto dalle mani disgustato, mentre cercava di addestrarmi alla bellezza della solidarietà cooperativa: "Non è tuo, Matteo, è NOSTRO!" mi ripeteva sempre, fino alla nausea.
Fatto sta che, per quanto introverso e solitario e irascibile, alla fine compresi il concetto pure io. E all'improvviso mi si schiuse davanti agli occhi un mondo nuovo, in cui niente più era mio, ma tutto era Nostro.
Fu con quest'idea in testa e convinto di essere nel giusto che manco Mosé con le tavole in mano, che avvicinai il bambino col cappellino che stava giocando col pallone giallo. E quando il pallone rotolò verso di me lo presi in mano felice ancor di più, visto che era stato lui a venire da me. Era evidentemente un segno del destino.
Allora era vero, quel pallone era Nostro.
"Dammelo, è MIO!" urlò il bambino sull'orlo delle lacrime e strappandomelo dalle mani con forza. E io, di rimando ma sereno e imperturbabile come un monaco zen: "No. È NOSTRO!". E il bambino sconvolto e stavolta in lacrime sul serio: "NO!! E' MIO!!" E io invece, riprendendogli il pallone di nuovo: "MA no!! È NOSTRO!!"
E insomma sul più bello si avvicina un adulto, enorme e un po' incazzoso. Il padre del bambino. Si riprende il pallone dalle mie mani con fare un po' brusco lanciando a mio padre uno sguardo sottotitolato "insegna a tuo figlio a stare al mondo, barbùn". Il me stesso bambino rincorre l'uomo enorme al grido di "È Nostro! È nostro!" quando all'improvviso sento una mano afferrarmi da dietro. La mano di mio padre. Che un po' per educazione, e un po' per aver buttato un occhio all'enormità dei muscoli dell'altro babbo, mi guarda con due occhi che non dimenticherò mai e mi fa:
"No no, Matteo, il pallone è SUO."
Da allora, il mondo non fu più lo stesso.
Giurai che avrei passato il resto della mia vita a difendere i deboli dalle ingiustizie e dai soprusi e iniziai ad allenarmi in segreto nella mia caverna sotterranea. Poi qualcosa dev'essere andato storto. Anche perché il ragno radioattivo che mi ha morso non mi ha trasmesso alcun potere se non le ragnatele in bagno.
Ma ancora oggi, quando vedo un tipo grosso tipo quello che stamattina al supermercato mi ha fregato l’ultimo cartone di Ichnusa in offerta, vengo colto dall’irrefrenabile desiderio di inseguirlo fin nel parcheggio e urlargli selvaggiamente:
"Ridammi il pallone, bastardo!"
*** Matteo BUSSOLA, scrittore, facebook, 1 febbraio 2022
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