venerdì 24 luglio 2020

#SENZA_TAGLI / Suicidio e speranza (Enrico Finzi)

Il suicidio di mio fratello Paolo, militante anarchico da oltre 50 anni, pone – tra l’altro – la questione del (presunto) tradimento dell’impegno a lavorare per la radicale trasformazione della società e della cultura, moltiplicando l’auto-organizzazione dal basso.

Chi si uccide, pensano alcuni, abbandona il terreno della lotta e – con esso – le compagne e i compagni d’una vita o recenti.

Di più: per altri chi si dà la morte, perdendo la speranza, lascia pensare che il movimento libertario sia perdente, sia stato sconfitto dalla storia.

Non è così. Ho discusso a lungo con Paolo del significato per gli altri, i restanti, della sua scelta, libera e personalissima. Cerco, dunque, di spiegare il suo punto di vista.

La mia opzione, diceva Paolo, “non vuole essere esemplare, vale solo – soffertamente – per me”. E spiegava: “sono solo io che non ce la faccio più, sono malato e stanco, non riesco più a vivere”.

Si sentiva come un fante portabandiera, che cade a terra: “se non riesce a rialzarsi, un altro prenderà il vessillo e lo alzerà di nuovo”. La battaglia continua, “molte compagne e compagni proseguiranno la lotta”.

“Nessuno è indispensabile, tutti siamo utili”, aggiungeva. Lo prendevo in giro per la metafora militare e replicavo: ma tu lascerai un vuoto. “Lo so e mi rattrista, ma noi siamo un movimento di pari, senza un vertice, senza una gerarchia: andremo avanti in ogni caso, come da 200 anni e più”.

E la speranza? “Io l’ho persa ma essa vivrà senza di me. Io ho fatto quel che ho potuto” rivendicava con orgoglio. “Ora toccherà, come prima, anche agli altri, con quella forza che io – io solo – non ho più”.

Ragionavamo sull’importanza dello sperare per cambiare il mondo. Paolo diceva: “so che tante e tanti quella speranza la coltiveranno”.

È questa, concordavamo, “la potenza dell’utopia, dell’immaginare e del cominciare a realizzare – qui e ora, senza deleghe e rappresentanti – il mondo nuovo che sovvertirà il vecchio, iniquo, marcio, suicida”.

Mio fratello continuava a credere nel pensiero e nell’azione anarchica: “questo brulichio di donne e di uomini capaci di pensare, indignarsi, sperimentare e insieme produrre futuro, sempre in direzione ostinata e contraria”. E citava De André.

Ai suoi funerali so che vorrebbe un clima di festa e non solo di dolore. Si riferiva anche alla nostra tradizione di famiglia: seppellire piangendo un defunto e poi fare una grande mangiata, tutti uniti. Perché la vita continua e con essa la lotta, che non deve essere solo dolore e rabbia ma gioia e speranza.

In questo senso, Paolo – il compagno Paolo – sorriderebbe lievemente ironico, come ben sa chi l’ha conosciuto.

Dunque, piangiamo, tutti noi che l’abbiamo amato, e ridiamo. I libertari rialzano la sua bandiera. Solo così lo onorano davvero.

*** Enrico FINZI, ricercatore sociale, fondatore e responsabile di 'Sòno human tuning', Suicidio e speranza, blog 'enricofinzi.it', 23 luglio 2020, qui


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