Akin, il Vecchio Consigliere di Matunde, il Re delle Valli, aveva solo un difetto. Quando attorno a lui accadeva qualcosa di negativo, ripeteva come un mantra la frase che aveva imparato grazie agli anni e alla esperienza di vita: 'anche il male può essere un bene'. Lo faceva ammonendo: cadenzava la voce con lentezza e muoveva il dito indice come a voler sottolineare il valore dell'insegnamento.
Il re e i ministri, per questa sua mania, di nascosto lo prendevano in giro: lo sopportavano solo perché i suoi consigli si erano rivelati sempre saggi e azzeccati, e in più occasioni avevano risolto problemi di governo difficili, che avrebbero potuto produrre conseguenze anche pericolose per il regno.
Per questo Matunde, pur sbuffando perché non riusciva a fare a meno di questo rapporto ormai chiaramente di dipendenza psicologica da Akin, non faceva nulla senza il suo consigliere: lui era diventato l'ombra del re e dove il re andava, lui c'era.
Quel giorno il re, che si trovava a villeggiare per il periodo estivo nel castello di un piccolo paese lontano dalla capitale, aveva previsto di dedicare la mattina al benessere del suo corpo.
Prima di sottoporsi a bagni caldi e freddi, in combinazione attentamente studiata per rilassare e ritemprare la pelle, e di farsi massaggiare ogni angolo del corpo con unguenti speciali prodotti appositamente per lui con ricette segrete dagli esperti del regno, si era fatto raggiungere dal primo barbiere del Paese, per ripulirsi di barba e capelli.
A costui aveva ordinato di condurre con sé la giovane figlia, che aveva appena ottenuto, con una grande pergamena d'oro, il diploma di migliore estetista del regno: le avrebbe consegnato mani e piedi per una cura di bellezza straordinaria.
Prima di sottoporsi a bagni caldi e freddi, in combinazione attentamente studiata per rilassare e ritemprare la pelle, e di farsi massaggiare ogni angolo del corpo con unguenti speciali prodotti appositamente per lui con ricette segrete dagli esperti del regno, si era fatto raggiungere dal primo barbiere del Paese, per ripulirsi di barba e capelli.
A costui aveva ordinato di condurre con sé la giovane figlia, che aveva appena ottenuto, con una grande pergamena d'oro, il diploma di migliore estetista del regno: le avrebbe consegnato mani e piedi per una cura di bellezza straordinaria.
Il tempo minacciava un nubifragio: nuvoloni scuri, gonfi di pioggia, stavano oscurando il cielo.
Matunde, dopo un taglio perfetto di barba e capelli, era comodamente sdraiato su un divanetto della grande stanza da bagno: aveva mollemente allungato la mano sinistra alla giovane estetista, che stava procedendo a ritagliargli le unghie con forbici apposite, prima di applicare ogni crema profumata possibile.
All'improvviso, nel cielo fattosi buio, un lampo illuminò a giorno la stanza e quasi in contemporanea un tuono bucò i timpani: una staffilata secca, al massimo dei decibel possibili.
La giovane ebbe un sussulto e urlò per lo spavento.
Ma l'urlo del re fu ancora più violento e acuto: le forbici dell'estetista, proprio mentre stavano arrotondando l'unghia del mignolo del re, sfuggirono al controllo.
E Matunde si trovò la falange del mignolo amputata.
Matunde, dopo un taglio perfetto di barba e capelli, era comodamente sdraiato su un divanetto della grande stanza da bagno: aveva mollemente allungato la mano sinistra alla giovane estetista, che stava procedendo a ritagliargli le unghie con forbici apposite, prima di applicare ogni crema profumata possibile.
All'improvviso, nel cielo fattosi buio, un lampo illuminò a giorno la stanza e quasi in contemporanea un tuono bucò i timpani: una staffilata secca, al massimo dei decibel possibili.
La giovane ebbe un sussulto e urlò per lo spavento.
Ma l'urlo del re fu ancora più violento e acuto: le forbici dell'estetista, proprio mentre stavano arrotondando l'unghia del mignolo del re, sfuggirono al controllo.
E Matunde si trovò la falange del mignolo amputata.
Ovviamente seguì un putiferio: sangue dappertutto, la giovane svenuta, il re impazzito per il dolore, il barbiere accasciato a terra con un mezzo infarto, il medico subito accorso con due infermieri forniti di ogni più moderno strumento di pronto soccorso.
L'unico che rimase imperturbabile, in disparte, fu Akin, il Vecchio Consigliere.
Il re era disperato.
«Il mio dito, il mio dito», ripeteva piagnucolando. «Questa stupida ragazzina mi ha tagliato il mignolo e ora la mia mano è irrimediabilmente deturpata.»
Chiamò la guardia addetta ai sotterranei del castello.
«Prendetevi questa giovane inetta e imprigionatela nella cella più umida e fredda delle cantine: per lei solo pane e acqua per un mese almeno. Deciderò io se e quando farle la grazia di liberarla.»
Poi, tenendosi il mignolo fasciato e protestando con il medico perché gli analgesici non sembravano fare alcun effetto al dolore lancinante, Matunde si rivolse al Vecchio Consigliere.
«Avete visto che disgrazia mi è accaduta? Voi che siete sempre pronto a sentenziare, non dite nulla stavolta?».
Il Vecchio Consigliere sorrise.
«Sono addolorato, Maestà. Ma sapete ciò che ripeto sempre: 'anche il male può essere un bene'. Non faccio un'eccezione: confermo. Pure in questo caso 'il male può essere un bene'».
Il re divenne paonazzo per la rabbia e non trattenne un serie infinita di improperi.
«Adesso basta, Akin: non vi sopporto più. Avete passato il segno».
Richiamò indietro la guardia che stava incamminandosi con la giovane ammanettata verso le celle sotterranee.
«Conducete con voi anche questo vecchio impossibile. Non ne posso più di sentirgli ripetere la sua litania idiota. Sono senza un dito e dovrei pure rallegrarmi perché questo può essere un bene. Basta: pane e acqua anche per lui. E sarà libero, se e quando lo dirò io».
Trascorse un mese.
La mano del re, curata con premura giorno e notte da medico e infermieri, guarì perfettamente: la piccola falange del mignolo era amputata, ma, grazie alle sue dimensioni, si notava a fatica.
Un giorno, invogliato dalla giornata splendida che sin dall'alba preannunciava un sole dolce e un cielo terso, Matunde decise di farsi una passeggiata fuori dal paese.
Senza accompagnatori: a piedi, come un suddito qualunque. Una volta tanto voleva fare a meno del baldacchino e provare il privilegio di una camminata solitaria.
Ricordò che a qualche miglia dal castello, lungo uno dei tanti fiumi delle valli del regno, gli avevano detto ci fosse un villaggio di gente che discendeva da una popolazione antichissima: parlava una lingua incomprensibile e viveva appartata dal resto dei sudditi.
Diverse volte aveva manifestato il desiderio di essere condotto, nella sua veste formale di re, a conoscere questo villaggio: ma i funzionari di corte lo avevano sempre dissuaso.
Gli avevano detto: «E' un popolo pericoloso, Maestà: non gradisce visite, vive appartato e in maniera primitiva. Anche i nostri esploratori hanno avuto contatti cauti e alla lontana. Sanno solo che questa gente esiste, ma non sono riusciti a decifrarne i costumi».
Forse la giornata era l'occasione per cominciare a dare un'occhiata, informale e diretta, a questo popolo strano e non ancora 'conquistato' alla sovranità del regno.
Finora Matunde aveva sempre rimandato la soluzione del problema, ma era impensabile che all'interno del regno ci fossero sudditi cui era consentito di non riconoscere l'autorità regale.
Così, mentre si vestiva per prepararsi al viaggio, si disse con determinazione che la questione sarebbe stata affrontata nel prossimo Consiglio del regno. E magari proprio Akin (gli uscì un sospiro addolorato mentre se lo immaginava infreddolito nelle umide segrete del castello...) avrebbe potuto dare il suggerimento risolutivo.
Il re, senza dire nulla ai funzionari di corte, si mise quindi in viaggio, munito solo di uno zaino in cui aveva infilato dei viveri che si era fatto consegnare dal cuoco, senza dare spiegazioni delle ragioni di questa sua strana richiesta.
Furono molte più miglia di quanto si aspettasse, ma finalmente, dopo tanto camminare, apparve la piccola valle che incrociava la valle principale del regno.
E, lungo il fiume che la percorreva, Matunde finalmente vide affaccendarsi uomini e donne vestiti di pelli, che brandivano grandi coltellacci: tagliavano legna per allestire una catasta su cui si accingevano a sdraiare un vitello. Altri uomini e donne erano abbigliati con pelli e penne sgargianti e danzavano ad un rullo di tamburi assordanti.
Il re capì che si trattava di una cerimonia: stava per compiersi il sacrificio di un animale secondo i riti più antichi.
Si guardò in giro: la sua posizione di osservazione sembrava sicura, nascosta da un grande baobab. Si predispose a non perdere un fotogramma di quanto accadeva.
Non fece in tempo a rendersene conto.
In un attimo tre uomini lo colsero alle spalle e si trovò legato come un salame.
Matunde venne portato accanto al fiume, al cospetto di un uomo dall'età indefinita: probabilmente il più anziano e quindi il capo.
Bastò un cenno rapido: dieci uomini, in pochi minuti, predisposero una pira.
Il re venne denudato, poi steso e legato alla pira.
Tutto il popolo si radunò attorno a Matunde.
Erano comparsi dappertutto strumenti a percussione, che uomini e donne suonavano con tutta la foga e la forza di cui erano capaci, facendo un baccano infernale.
Il capo stava per dare l'ordine di accendere il fuoco.
Matunde, sdraiato sulla pira e bloccato da lacci impossibili da sciogliere, si dimenava atterrito: ormai senza speranza. Urlava con tutto il fiato che aveva in gola parole accorate: chiedeva aiuto, ma nessuno ascoltava. E del resto nessuno era in grado di comprendere la sua lingua.
Un uomo, accanto alla catasta, aveva un legno già acceso: attendeva solo che il capo gli facesse cenno per appiccare le fiamme.
Il capo fece un giro lento e circospetto attorno alla pira, controllando con attenzione ogni pezzo del corpo nudo del re.
Quando vide la mano sinistra, fermata da un corda ma aperta e distesa lungo i fianchi, si bloccò, come preoccupato. Avvicinò gli occhi per guardare meglio: toccò ogni dito della mano dello straniero con le dita della sua mano.
Emise un urlo: voleva essere un comando inappellabile.
Fu, di colpo, silenzio assoluto: caddero a terra i tamburi e il popolo tutto si trovò a fissare il capo, in attesa spasmodica.
Il capo liberò la mano di Matunde dalle corde e la alzò perché tutti la vedessero.
La indicava ripetutamente, con il lungo coltello che brandiva, mostrandola a trecentosessanta gradi: il mignolo aveva la falange amputata.
In pochi secondi il re si trovò libero: gli vennero riconsegnati i vestiti.
E tutti iniziarono a spingerlo via: tornasse da dove era venuto, sparisse dal loro villaggio.
Il re era stordito. Cosa stava accadendo?
La gente, mentre lo spintonava perché se ne andasse al più presto, continuava a segnalargli il dito della sua mano sinistra.
A gesti gli fecero capire che la cerimonia era risultata impossibile: lui mancava di una parte del corpo.
Matunde, sia pure a fatica, alla fine credette di aver compreso: il sacrificio esigeva un corpo integro per essere accettato dagli dei in cui quel popolo credeva. La sua falange mancante lo aveva salvato.
Il re rientrò al castello a passi più rapidi possibile.
I ministri, appena lo videro entrare in cortile, affannato e sudato, lo assalirono, facendogli capannello attorno: gli chiedevano dove fosse andato, facendogli capire, con inchini incessanti, che si erano preoccupati per la sua assenza improvvisa.
Lui si sottrasse loro con fastidio: correva.
E nessuno lo aveva mai visto correre.
L'unico che rimase imperturbabile, in disparte, fu Akin, il Vecchio Consigliere.
Il re era disperato.
«Il mio dito, il mio dito», ripeteva piagnucolando. «Questa stupida ragazzina mi ha tagliato il mignolo e ora la mia mano è irrimediabilmente deturpata.»
Chiamò la guardia addetta ai sotterranei del castello.
«Prendetevi questa giovane inetta e imprigionatela nella cella più umida e fredda delle cantine: per lei solo pane e acqua per un mese almeno. Deciderò io se e quando farle la grazia di liberarla.»
Poi, tenendosi il mignolo fasciato e protestando con il medico perché gli analgesici non sembravano fare alcun effetto al dolore lancinante, Matunde si rivolse al Vecchio Consigliere.
«Avete visto che disgrazia mi è accaduta? Voi che siete sempre pronto a sentenziare, non dite nulla stavolta?».
Il Vecchio Consigliere sorrise.
«Sono addolorato, Maestà. Ma sapete ciò che ripeto sempre: 'anche il male può essere un bene'. Non faccio un'eccezione: confermo. Pure in questo caso 'il male può essere un bene'».
Il re divenne paonazzo per la rabbia e non trattenne un serie infinita di improperi.
«Adesso basta, Akin: non vi sopporto più. Avete passato il segno».
Richiamò indietro la guardia che stava incamminandosi con la giovane ammanettata verso le celle sotterranee.
«Conducete con voi anche questo vecchio impossibile. Non ne posso più di sentirgli ripetere la sua litania idiota. Sono senza un dito e dovrei pure rallegrarmi perché questo può essere un bene. Basta: pane e acqua anche per lui. E sarà libero, se e quando lo dirò io».
Trascorse un mese.
La mano del re, curata con premura giorno e notte da medico e infermieri, guarì perfettamente: la piccola falange del mignolo era amputata, ma, grazie alle sue dimensioni, si notava a fatica.
Un giorno, invogliato dalla giornata splendida che sin dall'alba preannunciava un sole dolce e un cielo terso, Matunde decise di farsi una passeggiata fuori dal paese.
Senza accompagnatori: a piedi, come un suddito qualunque. Una volta tanto voleva fare a meno del baldacchino e provare il privilegio di una camminata solitaria.
Ricordò che a qualche miglia dal castello, lungo uno dei tanti fiumi delle valli del regno, gli avevano detto ci fosse un villaggio di gente che discendeva da una popolazione antichissima: parlava una lingua incomprensibile e viveva appartata dal resto dei sudditi.
Diverse volte aveva manifestato il desiderio di essere condotto, nella sua veste formale di re, a conoscere questo villaggio: ma i funzionari di corte lo avevano sempre dissuaso.
Gli avevano detto: «E' un popolo pericoloso, Maestà: non gradisce visite, vive appartato e in maniera primitiva. Anche i nostri esploratori hanno avuto contatti cauti e alla lontana. Sanno solo che questa gente esiste, ma non sono riusciti a decifrarne i costumi».
Forse la giornata era l'occasione per cominciare a dare un'occhiata, informale e diretta, a questo popolo strano e non ancora 'conquistato' alla sovranità del regno.
Finora Matunde aveva sempre rimandato la soluzione del problema, ma era impensabile che all'interno del regno ci fossero sudditi cui era consentito di non riconoscere l'autorità regale.
Così, mentre si vestiva per prepararsi al viaggio, si disse con determinazione che la questione sarebbe stata affrontata nel prossimo Consiglio del regno. E magari proprio Akin (gli uscì un sospiro addolorato mentre se lo immaginava infreddolito nelle umide segrete del castello...) avrebbe potuto dare il suggerimento risolutivo.
Il re, senza dire nulla ai funzionari di corte, si mise quindi in viaggio, munito solo di uno zaino in cui aveva infilato dei viveri che si era fatto consegnare dal cuoco, senza dare spiegazioni delle ragioni di questa sua strana richiesta.
Furono molte più miglia di quanto si aspettasse, ma finalmente, dopo tanto camminare, apparve la piccola valle che incrociava la valle principale del regno.
E, lungo il fiume che la percorreva, Matunde finalmente vide affaccendarsi uomini e donne vestiti di pelli, che brandivano grandi coltellacci: tagliavano legna per allestire una catasta su cui si accingevano a sdraiare un vitello. Altri uomini e donne erano abbigliati con pelli e penne sgargianti e danzavano ad un rullo di tamburi assordanti.
Il re capì che si trattava di una cerimonia: stava per compiersi il sacrificio di un animale secondo i riti più antichi.
Si guardò in giro: la sua posizione di osservazione sembrava sicura, nascosta da un grande baobab. Si predispose a non perdere un fotogramma di quanto accadeva.
Non fece in tempo a rendersene conto.
In un attimo tre uomini lo colsero alle spalle e si trovò legato come un salame.
Matunde venne portato accanto al fiume, al cospetto di un uomo dall'età indefinita: probabilmente il più anziano e quindi il capo.
Bastò un cenno rapido: dieci uomini, in pochi minuti, predisposero una pira.
Il re venne denudato, poi steso e legato alla pira.
Tutto il popolo si radunò attorno a Matunde.
Erano comparsi dappertutto strumenti a percussione, che uomini e donne suonavano con tutta la foga e la forza di cui erano capaci, facendo un baccano infernale.
Il capo stava per dare l'ordine di accendere il fuoco.
Matunde, sdraiato sulla pira e bloccato da lacci impossibili da sciogliere, si dimenava atterrito: ormai senza speranza. Urlava con tutto il fiato che aveva in gola parole accorate: chiedeva aiuto, ma nessuno ascoltava. E del resto nessuno era in grado di comprendere la sua lingua.
Un uomo, accanto alla catasta, aveva un legno già acceso: attendeva solo che il capo gli facesse cenno per appiccare le fiamme.
Il capo fece un giro lento e circospetto attorno alla pira, controllando con attenzione ogni pezzo del corpo nudo del re.
Quando vide la mano sinistra, fermata da un corda ma aperta e distesa lungo i fianchi, si bloccò, come preoccupato. Avvicinò gli occhi per guardare meglio: toccò ogni dito della mano dello straniero con le dita della sua mano.
Emise un urlo: voleva essere un comando inappellabile.
Fu, di colpo, silenzio assoluto: caddero a terra i tamburi e il popolo tutto si trovò a fissare il capo, in attesa spasmodica.
Il capo liberò la mano di Matunde dalle corde e la alzò perché tutti la vedessero.
La indicava ripetutamente, con il lungo coltello che brandiva, mostrandola a trecentosessanta gradi: il mignolo aveva la falange amputata.
In pochi secondi il re si trovò libero: gli vennero riconsegnati i vestiti.
E tutti iniziarono a spingerlo via: tornasse da dove era venuto, sparisse dal loro villaggio.
Il re era stordito. Cosa stava accadendo?
La gente, mentre lo spintonava perché se ne andasse al più presto, continuava a segnalargli il dito della sua mano sinistra.
A gesti gli fecero capire che la cerimonia era risultata impossibile: lui mancava di una parte del corpo.
Matunde, sia pure a fatica, alla fine credette di aver compreso: il sacrificio esigeva un corpo integro per essere accettato dagli dei in cui quel popolo credeva. La sua falange mancante lo aveva salvato.
Il re rientrò al castello a passi più rapidi possibile.
I ministri, appena lo videro entrare in cortile, affannato e sudato, lo assalirono, facendogli capannello attorno: gli chiedevano dove fosse andato, facendogli capire, con inchini incessanti, che si erano preoccupati per la sua assenza improvvisa.
Lui si sottrasse loro con fastidio: correva.
E nessuno lo aveva mai visto correre.
Correva verso le scale che conducevano alle celle.
Le percorse a due a due, mentre il guardiano, appena sentito il trambusto, immediatamente gli si parò innanzi, non riconoscendolo e preoccupato che qualcuno stesse violando gli ordini ricevuti per i due prigionieri.
Le percorse a due a due, mentre il guardiano, appena sentito il trambusto, immediatamente gli si parò innanzi, non riconoscendolo e preoccupato che qualcuno stesse violando gli ordini ricevuti per i due prigionieri.
Matunde scostò il guardiano con tale violenza che lo fece cadere: doveva arrivare là dove doveva.
Subito. Ora.
Subito. Ora.
«Seguimi con le chiavi», gli urlò dietro.
La prima a essere liberata fu la giovane estetista.
«E' grazie a te che sono vivo: ti devo la vita. Oggi, preda di una popolazione che il nostro regno non ha ancora condotto alla civiltà, sarei stato sacrificato: morto bruciato su una pira se avessi avuto il corpo integro. La falange del mio dito mignolo, invece, mi ha liberato. Sono salvo per il tuo errore: benedette le tue forbici e benedetto il fulmine che ti fece sobbalzare. E' la conferma di quanto ripete sempre Akin, il Vecchio Consigliere: anche il male può essere un bene».
Nella cella accanto era segregato il Vecchio Consigliere: aveva ascoltato, in un silenzio imperturbabile, le grida di gioia del re e la spiegazione data alla giovane ragazza.
Matunde, appena Akin poté uscire dalla cella, gli si inginocchiò davanti.
«Devo chiederti perdono, Akin: sei davvero un grande saggio e anche stavolta, devo ammetterlo, hai avuto ragione. Ti restituirò pubblicamente l'onore e ogni volta che qualcuno si lascerà andare a qualche sorriso ironico per il tuo detto sul male e sul bene, finirà in prigione, almeno per il mese in cui ho costretto te a starci.»
Akin ascoltò senza muovere un muscolo della faccia: come sempre, sereno e impassibile.
Matunde lasciò sospesa una pausa di un secondo.
«Tuttavia...»
Akin ascoltò senza muovere un muscolo della faccia: come sempre, sereno e impassibile.
Matunde lasciò sospesa una pausa di un secondo.
«Tuttavia...»
Il re era perplesso: qualcosa non lo convinceva.
Akin aspettava: era certo che il re avrebbe proseguito e che sarebbe arrivata la domanda che immaginava.
Matunde infatti si decise.
«Sì, Akin, lasciami dire che in tutta questa storia c'è però qualcosa che non capisco. Come si applica nel tuo caso specifico la frase cui sei affezionato? Ha funzionato per me, ma non per te: sei finito in prigione per oltre un mese e questo per te è stato certamente un male. Dov'è il bene?»
Il Vecchio Consigliere gettò sul re un'occhiata furba e sorniona.
«Vedete Maestà, se voi non m’aveste messo in prigione, io vi avrei accompagnato nella passeggiata. Lo sappiamo entrambi: da tempo ormai è questa l'abitudine. Voi mi volete sempre accanto per via dei consigli che, secondo quanto ripetete, solo io sarei capace di darvi.
«Vero», convenne il re. «Ma questo cosa c'entra?»
Akin mostrò a Matunde la mano sinistra spalancata, con le dite in bella mostra.
«Io ho tutte e cinque le dita intere. Quei barbari la cerimonia l'avrebbero completata con me.»
*** Massimo FERRARIO, Anche il male può essere un bene, per Mixtura - Riscrittura creativa di un testo anonimo diffuso anche in rete
In Mixtura ark #Favole&Racconti di Massimo Ferrario qui
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