sabato 24 novembre 2018

#RACCONTId'AUTORE / Io sono quattro (Stefania Contardi)

Io non sono quattro. Io non sono il mio voto. Perché valutare è valorizzare, non condannare. E un quattro è una condanna. Un quattro non è recuperabile…

Ieri pioveva. Oggi diluvia.
A scuola mi accingo a fare l’appello, quando mi accordo che in terza fila c’è una ragazza nuova. Cerco i suoi occhi, ma ha la testa chinata sul banco e non riesco a vederla in faccia. Vedo solo uno chignon castano tipo quello delle ballerine classiche, ben aggiustato sulla testa. Praticamente perfetto. Il che mi fa pensare che deve essere una ragazza di quelle tutte precisine, che profumano di ammorbidente ogni giorno e non si mettono lo smalto sulle unghie, ma le hanno curatissime. Di quelle bellezze acqua e sapone che si truccano in modo che non te ne accorgi. Ma non è sul registro.
Strano che non mi abbiano avvertito. Comunque inizio.
“Ahmed?”
“Presente”
Lo guardo e mi accorgo che oggi ha qualcosa di strano che non riesco a identificare. Per esempio Ahmed non è Ahmed, anche se risponde ad Ahmed sulla carta. Sembra un altro ragazzo. È sempre scuro di capelli, ma quando lo guardo negli occhi, mi accorgo che non sono i suoi.
“Come sta tua sorella? È tornata dall’ospedale?
“Prof, ma io non ho una sorella”, mi risponde. Ho quattro fratelli. Tutti maschi, prof”, mi dice orgoglioso. Allora capisco subito che questo è un Ahmed apocrifo e non l’Ahmed originale. Controllo e ricontrollo, eppure qui c’è proprio scritto così: Ahmed Ismail e il registro è quello della quarta D. Lo fisso negli occhi per cercare qualcosa di famigliare, ma niente. Tuttavia non mi intestardisco su quest’idea e proseguo nell’appello.
“Baggio?”
“…”, alza la mano e non proferisce parola. La Baggio è proprio lei. Oggi ha solo dei capelli diversi. Oggi sono verdi. Ma lei, si sa, cambia colore tutti i giorni. Non sarebbe la Baggio se un giorno venisse, appunto, con uno chignon. Facciamo due chiacchiere. È tornata da una mostra alla Royal Academy di Londra dove è stata il fine settimana. Lungo. Infatti venerdì non c’era. Credo su suggerimento della mamma che non sta mai ferma, per lo meno da quando vivono nella provincia veneta. Credo che le stia un po’ stretta. Ne parliamo un po’. Una conversazione molto interessante e un po’ confusa. Ma con la Baggio tutte le conversazioni sono sempre confuse. Poi passo a Bianchi.
“Bianchi?”. Lo cerco ma non lo trovo.
“Assente, prof. Stamattina ha l’esame di guida”, risponde qualcuno.
“Ah. Capisco”
“Bosio?”
“Ci sono”
E via così fino all’ultimo che è Zardo.
È il nostro quarto d’ora di preziosissimo appello; quel momento in cui finalmente riesco a fare due parole individuali e a guardarli in faccia ad uno ad uno e loro si sentono visti. Non più trasparenti come si sentono quasi tutti gli adolescenti. È il loro momento di gloria. E lì esistono. Ecco perché ci tengo molto a fare due parole sincere con ognuno di loro.
L’appello è terminato e nessun nome per la ragazza con lo chignon. Così non so come chiamarla e chiamarla “Ehi, tu ragazza con lo chignon”, mi pare maleducato.
È seduta al posto di Bianchi che oggi è assente, e non so come farle alzare quegli occhi fissi sul banco, almeno per riuscire a guardarla in viso e darle il benvenuto. Nessuno obbietta il fatto che me la sono dimenticata in appello. Nessuno la guarda. Nessuno fa cenno alla new entry in nessunissimo modo. Anche questo è molto strano. Come mai non suscita curiosità? Come mai non c’è il solito parlottio? Magari la vedo solo io. Vorrei sapere se sono l’unico che la vede, ma chiedere alla classe se anche loro vedono la ragazza con lo chignon seduta al posto di Bianchi è come dichiarare la propria infermità mentale, sia che la ragazza ci sia, sia che non ci sia. E mentre penso questo, la ragazza con lo chignon si alza e sempre a testa bassa, si mette a correre verso le finestre che ora sono tutte aperte. Che strano. Non me ne ero accorto. E il percorso, non so perché, è così breve che nemmeno riesco a capire cos’è successo, che lei si è già buttata di sotto. Mi fiondo alla finestra. Ma di sotto non c’è l’ombra della ragazza che si è buttata. Nulla.

Mi sveglio sudato e in preda al panico.
È un periodo che faccio questo incubo. Lo stesso, identico, ma non riesco mai a vederla in faccia, la ragazza con lo chignon. E lei continua a buttarsi di sotto.
Ora, da quando una ragazzina di terza ha tentato il suicidio di fronte all’ennesimo quattro, o almeno questo è ciò che si dice, nemmeno il preside mi rompe più così tanto con le mie modalità.
I genitori hanno chiesto il massimo riserbo, anche per evitare l’assalto dei media.
No comment!
E del resto, cosa potremmo commentare…
Come diavolo si fa a decidere di togliersi la vita per un quattro! Doveva pesarle come un macigno questo giudizio. Ma eccolo lì che ti si appiccica addosso come un tumore. Lei, quella ragazzina, non era più quella che prendeva un quattro, diventava piano piano quella che prendeva quattro, fino a diventare quattro. Lei era quattro. E quando succede questo, è un disastro.
Valutare è valorizzare, non condannare. Perché un quattro è una condanna. Un quattro non è recuperabile. Ho cercato di farlo capire tante volte anche alla Zanon. Lei ogni tanto ci va giù pesante.
Io no. Basta! I voti non li metto più già da tempo. È stata dura farlo capire ai ragazzi, così abituati ad essere sempre valutati, ma è stata ancor più dura farlo capire ai genitori…Non tutti hanno apprezzato. Il Preside non potete immaginare…Non voto. Non giudico. Osservo. Commento. Incoraggio. Consiglio. Mi complimento. Esulto. Sdrammatizzo. Rido. Mi emoziono e glielo dico.

“Signori, vi ho riuniti in assemblea straordinaria per comunicarvi un fatto grave e molto delicato, che è accaduto recentemente nella nostra scuola”, esordisce il dirigente, che ci ha convocati d’urgenza.
Intanto fuori piove che Dio la manda e io penso che dovrò farmi dare un passaggio.
“Con rammarico sono stato informato dalla Asl 3 in cui è ricoverata  M.C. di seconda C, che la ragazza ha recentemente tentato un gesto estremo adolescenziale…”.
Un gesto estremo adolescenziale?
“…Pare che non appena ristabilitasi, siano stati fatti dei colloqui con il personale specializzato di neuropsichiatria che ha in cura la ragazza, e ne sia emerso che il gesto sia stato spinto da una serie di insufficienze gravi che aveva preso ultimamente…”
Brusio. Gente che bisbiglia. Chi si mette la mano sulla bocca per nascondere stupore, chi dispiacere. O, forse, paura.
“…Il che ovviamente è una follia!”, prosegue il preside.
“Silenzio, per favore! Fatemi finire. Ebbene, non c’è bisogno che vi dica che la questione è delicatissima sotto tutti gli aspetti e va gestita nel migliore dei modi per il bene della ragazza e ovviamente per il bene della scuola. La notizia non deve assolutamente uscire da questa stanza. Vi ordino di non farne cenno con nessuno e di non rilasciare alcuna intervista qualora foste avvicinati dalla stampa. Non parlatene nemmeno tra di voi. Credo non ci sia molto da aggiungere. È evidente che la ragazzina aveva problemi pregressi. Psicologici, familiari. Non è escluso che sia a causa della recente separazione dei genitori, o dalle loro reiterate assenze per le loro professioni. Di un certo peso; la madre è Direttore Commerciale di una multinazionale ed è spesso in viaggio e il padre, tra le altre cose, il padre è avvocato… Non devo dirvi altro. Vediamo come si sviluppano gli eventi e teniamoci preparati. Per il momento silenzio. Ci riaggiorniamo”.
Gelo.
“Ah, un’ultima cosa…”, aggiunge il dirigente, “…non c’è bisogno che vi dica di andarci piano con le insufficienze gravi, almeno per un po’”.
Ipocrita.
Esco dalla riunione depresso e disgustato e penso che questa è una di quelle notizie che ti fa dimenticare la contingenza delle cose sciocche, come bagnarsi sotto alla pioggia perché non hai l’ombrello. Così preferisco non chiedere un passaggio a nessuno e mi avvio sotto la pioggia battente, che, però, non riesce a lavare via queste amare considerazioni.
E ripenso all’incubo ricorrente della ragazza con lo chignon.

*** Stefania CONTARDI, scrittrice, Io non sono quattro, in 'stefaniacontardi.it', 8 ottobre 2018, quiestratto da un racconto di Stefania Contardi, 2018.


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