L’«Huffington Post», solo per fare un esempio celebre, a un certo punto arriva a essere valutato quasi quanto il «New York Times», con la differenza – tra le altre – che il grosso della sua forza lavoro è composta da seimila blogger che scrivono senza percepire un dollaro. Soprattutto nelle professioni intellettuali venire pagati poco o niente non è più un tabù. Il sottotesto sembra essere preso di peso dai teorici dell’economia della celebrità: non siete pagati in denaro, ma fate girare il nome e prima o poi (se ci arrivate vivi) ne mungerete ritorni economici. Peccato che, al netto di pochissime eccezioni, non è andata così. Abbiamo assistito invece a una serie di degradazioni successive e apparentemente inarrestabili nei compensi, sotto la minaccia implicita che si trova sempre qualcuno che lo farebbe a meno, o anche gratis. I siti di commercio elettronico di maggior successo, come Amazon, hanno imparato la lezione prima e meglio degli altri. Le recensioni dei libri non le fanno i recensori professionali (che addirittura fatturano, esosi!), ma gli acquirenti, ricompensati in moneta di narcisismo. Non sono, ovviamente, solo pulsioni egotistiche a motivare chi contribuisce al web 2.0. C’è dell’altruismo, come succede con Wikipedia che metterà presto fuori corso tutte le Britannica del mondo. Oppure la volontà di condividere momenti della vita quotidiana con gli amici, come su Facebook. O ancora mettere in comune cose divertenti da guardare, come su YouTube. La lista potrebbe proseguire a oltranza, ma l’importante è mettere a fuoco la prima anomalia: sono tutte situazioni in cui noi lavoriamo e loro (Zuckerberg, Brin e Page, Bezos, e cosí via) guadagnano. (...)
C’è un modo di dire che va piuttosto forte nella Silicon Valley che è: «Se non stai comprando un prodotto, significa che il prodotto sei tu». Da Google, Facebook e Instagram non si acquista niente. Sono servizi (apparentemente) gratis. Valgono cosí tanto, facendo lievitare in maniera pazzesca il valore di ogni singolo dipendente, perché detengono una quantità senza precedenti di informazioni sul nostro conto. Che vendono, o potrebbero vendere, o che comunque possono usare per vendervi altro. Siamo noi che gliele consegniamo entusiasticamente, volenterosi carnefici della nostra privacy. In cambio otteniamo i loro servizi. È uno scambio, ma è equo? Mettendo a confronto l’andamento dei conti in banca di Page e Brin, di Zuckerberg e di Bezos con quelli di tutti noi, di quella classe media i cui salari sono rimasti praticamente fermi dalla fine degli anni ’70, resta più di un dubbio. E un interrogativo angoscioso prende piede: se ormai basta una dozzina di persone, come agli albori di Instagram, per creare un servizio con un pubblico di 300 milioni di clienti nel mondo, o due prof-star possono insegnare via web a una classe di centomila studenti, cosa faranno tutti quelli resi inutili dalla tecnologia?
*** Riccardo STAGLIANO', giornalista e saggista, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, 2016
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