domenica 15 gennaio 2017

#MOSQUITO / Pensiero-Persona e Pensiero-Anima (Gian Piero Quaglino)

Siamo tentati, allora, di pensare che esistano due tipi di pensiero con i quali è possibile, in un certo senso, misurare la psicologia: da una parte un pensiero che, per dirla con Jung, potremo chiamare Persona e, dall’altra parte, un pensiero che potremmo chiamare Anima. Così, nel momento in cui Jung si accorse che Freud probabilmente propendeva più per un pensiero-Persona che non per un pensiero-anima, avrebbe deciso che la sua strada andava in un’altra direzione.

Il pensiero-Persona è quello che pensa, in un certo senso, con una qualche intenzione di progetto di teoria e con più di un timore reverenziale nei confronti di un qualche criterio di scientificità. Un pensiero, inoltre, che un momento dopo essere stato pensato corre il rischio di non riuscire più a pensare se non se stesso e di non riuscire più ad ascoltare ciò che il pensiero stesso vorrebbe dire; poiché è difficile sganciare il pensiero dal pensatore, il pensiero-Persona ha un po’ la vocazione di pensare quello che afferma, sostiene, pensa potrebbe essere di nessuno – la famosa obiettività scientifica, l’impersonalità – oppure che potrebbe essere di molti, di centomila per esempio – quanti più sono meglio è! -, evidentemente convinti della bontà di quel pensiero.
Così, il pensiero-Persona ha necessità di persone che continuino a pensarlo in modo mimetico, fondamentalmente ripetitivo, a rinchiuderlo in qualche gabbia teorica che possa diventare anche luogo di associazione. Per cui, in definitiva, si istituisce qualche cosa che viene offerto come una sorta di oggetto sacrificale, come pensiero destinato ad altri che, così, penseranno e naturalmente manterranno una qualche identità personale, anche se, tendenzialmente, prevarrà la maschera piuttosto che non l’autenticità di quello che sarebbe potuto essere il loro pensiero.

Da un lato, il pensiero-Persona tende a sollecitare una qualche conformità, e dall’altro lato a rispettarla: c’è nel pensiero-Persona una preoccupazione che può condurre anche al tradimento di un pensiero autentico in nome di un pensiero condiviso; c’è preoccupazione di immagine, di accettazione, di legittimazione, di consenso. In fondo, il pensiero-Persona tende all’influenza, al proselitismo, prima che non a se stesso. Il pensiero-Persona può rischiare di arrivare a non pensare se non in funzione di un qualche presunto destinatario, di una qualche comunità, di una qualche collettività.

Il pensiero-Anima, invece, non è un pensiero calcolatore od opportunistico, che pensa in funzione di un qualche vantaggio o di una qualche opportunità: è, quindi, un pensiero che è poco preoccupato, da un lato, di quello che gli altri pensano di lui, e dall’altro lato di pensare delle cose diverse rispetto a quelle che aveva pensato in precedenza. Mentre il pensiero-Persona è preoccupato dal fatto che gli altri la pensino allo stesso modo (o in modo diverso), il pensiero-anima non si preoccupa non solo che gli altri, ma anche lui stesso ora possa pensare in modo diverso. Potremmo anche dire che il pensiero-Persona è interessato alla risposta, il pensiero-anima alla domanda. (…) Il pensiero-Persona è interessato al fatto che gli altri lo ascoltino, lo vedano, lo credano, mentre il pensiero-anima, al massimo, al fatto che gli altri lo seguano nel far emergere, piuttosto che l’adesione, il loro pensiero. Ancora, il pensiero-Persona insegue gli uguali, il pensiero-anima cerca di diversi. Il pensiero-Persona vuole una certa omologazione, il pensiero-anima cerca una certa singolarità, un’individuazione.
Se noi guardiamo l’opera di Jung e, soprattutto, la sua autobiografia, ci accorgiamo di come ogni volta Jung sia in realtà preoccupato di altro, più che non del proprio pensiero: soprattutto, forse, di dimostrare quanto questo sia stato casuale, accidentale, frutto di coincidenze e di passaggi strani dell’esistenza, e si sia sviluppato più come incontro di immagini che non come progetto in qualche modo prefigurato che facesse i conti con una qualche coerenza logica o con un principio di dimostrabilità. (…)

In una famosa biografia di Jung, la sua allieva Barabara Hannah scrive: “La psicologia di Jung si è sempre tutta quanta basata sulla sua esperienza effettiva (….) Jung era la sua propria psicologia.” E ancora: “Chiunque abbia conosciuto Jung da vicino, ha potuto rendersi conto che è stato proprio il conoscere se stesso a farne l’uomo che era. Non vi sono, nella sua psicologia, vacue teorie: tutto è basato sull’esperienza concreta, tutto vi è assolutamente genuino.” Nella sua autobiografia, Jung questo lo dice con chiarezza: “L’ ‘autobiografia’– quindi “Ricordi, Sogni, Riflessioni”, dove le riflessioni arrivano terze dopo i ricordi e i sogni – è la mia vita esaminata alla luce delle conoscenze che ho acquisito con le ricerche scientifiche. Tutte e due sono una cosa sola – la vita e le ricerche ovviamente. – La mia vita, in un certo senso, è stata la quintessenza di ciò che ho scritto, e non viceversa: ciò che sono e ciò che scrivo sono una cosa sola.” (…)

Il pensiero-Persona ha, più che altro, questa preoccupazione: quella di pensare ciò che si vorrebbe scrivere. Il pensiero-Anima, potremmo dire, ha, al contrario, soprattutto la preoccupazione di pensare chi è che sta pensando e che cosa gli accade, perché è proprio da ciò che accade – dall’incidenza, dall’accidenza, dalla coincidenza e dalla consapevolezza che tutto questo contenga un qualche significato – che si apre il pensiero, e non da un qualche oggetto che possa essere in qualche misura pensato secondo determinati canoni. La condizione di fondo, insomma, è che sia l’esistenza a muovere il pensiero – e non viceversa – e che non ci sia progetto nel pensiero, ma soltanto cammino e, quindi, in un certo senso, apertura a ciò che ci viene incontro, prima che non a ciò che si desidera trovare a tutti i costi. (...) 

Il suo interesse [di Jung] è quello di collegare il pensiero con la vita piuttosto che con l’opera: l’opera ne sarebbe conseguita. Soltanto se c’è una vita diversa, infatti, capace di suscitare un nuovo pensiero o un pensiero che muove dalle circostanze della vita, si riesce ad avanzare nell’opera; in caso contrario, l’opera si isterilisce, si “personifica”, non si “individua”. Questa è forse la ragione per cui Jung disse: “Per fortuna sono Jung e non sono junghiano!”, che è come dire che non si vorrebbe mai che la propria opera diventasse la vita di qualcun altro. L’opera può sì diventare la ragione di un’esistenza, ma non imprigionarla.

*** Gian Piero QUAGLINO, psicologo, esperto di formazione e consulente, già docente  di psicologia della formazione all'università di Torino, saggista, in Gian Piero Quaglino, a cura, Carl Gustav Jung a Eranos 1933-1952, Antigone Edizioni, 2007.
Riportato in 'Jungitalia.it', 2 gennaio 2014, qui

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