Leggo la lettera di Bruno Vespa al 'Corriere della Sera' di autodifesa per la sua intervista a 'Porta a Porta' al figlio di Riina. (Bruno Vespa, "Biagi intervistò Sindona e Liggio. Ma allora nessuno battè ciglio", Corriere della Sera', 9 aprile 2016, qui)
Mi pare che Vespa non voglia capire. O finga di non capire.
Nessuno nega il diritto di un giornalista di intervistare chicchessia. Certo, anche Hitler, se dovesse resuscitare. O lo stesso Riina padre, capo dei capi di Cosa Nostra, se fosse possibile. Anzi, direi che l'intervista di certi personaggi cruciali della storia e che hanno rappresentato il 'male' in maniera tanto intensa e 'assoluta', per qualità e quantità delle stragi commesse, non dovrebbe essere neppure un diritto, per un giornalista, bensì un dovere.
Il punto è come viene condotta l'intervista. E dunque quanto si possiede, insieme, mestiere tecnico e schiena diritta.
E' il mestiere infatti che suggerisce come porre le domande ed è la schiena diritta che impone di porle, le domande, ma quelle 'vere' e scomode, e ti evita di lasciar dire all'intervistato qualunque cosa abbia voglia di, o interesse a, dire.
E' il mestiere infatti che suggerisce come porre le domande ed è la schiena diritta che impone di porle, le domande, ma quelle 'vere' e scomode, e ti evita di lasciar dire all'intervistato qualunque cosa abbia voglia di, o interesse a, dire.
È la schiena diritta che ti impedisce di colludere (di fatto: anche al di là delle intenzioni) con chi hai di fronte, magari pure ricorrendo alle modalità più sfumate e sofisticate di collusione, così da nascondere o minimizzare la sostanziale compiacenza.
È la schiena diritta che ti impone di incalzare, ribattere, contrastare, argomentare: approfondendo, obiettando, portando dati e fatti, evidenziando le contraddizioni, mettendo in discussione le affermazioni, i sentimenti, i vissuti dell'intervistato.
Altrimenti si concede a questi intervistati di tanto particolare rilievo, specie se invitati in una tribuna privilegiata come una tv nazionale, tra l'altro vincolata a un contratto di 'servizio pubblicò', di fare marketing di se stessi e delle proprie convinzioni. E di lanciare i messaggi che più desiderano e per i quali proprio per questo hanno chiesto di essere intervistati.
Come è avvenuto per il figlio di Riina.
Che ha potuto rivolgersi al suo pubblico di mafiosi (ma non solo) per promuovere, bestemmiandoli, i valori della famiglia prendendo ad esempio la sua, venduta come affettuosa e premurosa, attenta alle virtù della tradizione e capace di insegnare il rispetto dei genitori. Perché a lui, dei 16 ergastoli di suo padre, delle stragi e degli omicidi ordinati, non risulta nulla.
E comunque non spetta a lui dire nulla.
Lui può solo affermare che suo padre era un buon padre. Che lo Stato, 'cattivo' (che lui ipocritamente dichiara di rispettare ma di cui non condivide le sentenze), ha tolto alla sua affettuosa vicinanza, chiudendolo in carcere.
Poverino lui e poverino suo padre. Tanto buono.
E che bell'esempio di figlio, rispettoso e amorevole. 'Fossero tutti così', penseranno in molti.
Per la cronaca: pare che il libro del figlio, appena uscito, vera ragione del sedicente scoop televisivo, sia subito schizzato in alto nelle classifiche di vendita.
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