Jörg ZITTLAU, "Gandhi per i manager.
L'altra strada per un successo illuminato e pacifico", 2003
traduzione di Chicca Galli
Ponte alle Grazie, 2015
pagine 162, € 13,00, formato ebook € 9,99
Lo stimolo per un ripensamento radicale
Non è la prima volta che si tentano accostamenti, in qualche modo anche arditi, fra grandi personaggi della storia, noti per visionarietà, profondità di pensiero, impegno umano e sociale, forte tensione spirituale o filosofica, e mondo manageriale. Buddha, Socrate, Gesù sono sicuramente degli esempi che più volte sono stati 'piegati' a questo fine. L'obiettivo seguito da autori diversi, infatti, è stato quello di ispirarsi alla loro visione della vita per trovare nelle parole da loro dette, o comunque a loro attribuite, e soprattutto nei comportamenti specifici da loro messi in atto, riferimenti precisi utili anche per un agire manageriale più riflettuto, meno gretto e angusto, più orientato al servizio delle persone, socialmente più etico e responsabile.
Questo volume del tedesco Jörg Zittlau, un giornalista che sa divulgare con stile semplice e allettante temi vari, anche di filosofia e sociologia, e si è occupato di stress e di gestione dei conflitti anche in campo organizzativo, va in questa direzione, assumendo come modello per l'impresa il Mahatma Gandhi. Il sottotitolo del libro preannuncia con nettezza l'intenzione: "l'altra strada per un successo illuminato e pacifico".
Per realizzare questo fine l'autore 'saccheggia', con leggerezza e simpatetictà, la vita e le opere di Gandhi, cercando di comporre quel quadro anche teorico di pensiero che il Mahatma si era sempre rifiutato di elaborare, avendo privilegiato l'azione alla concettualizzazione astratta. E poi, ricostruita questa mappa il più possibile organica di riflessioni e di azioni del grande leader indiano, ricava una quantità notevole di spunti operativi compatibili, a suo avviso, con uno schema di gestione alternativo, più intelligente e umano, del business e del sistema delle imprese.
Si può dire che nel complesso l'operazione di 'contaminare' positivamente il management ricorrendo all'ispirazione di Gandhi sia riuscita: il libro si legge con gusto e stimoli per pensare, e soprattutto 'ripensare', non mancano. Ci sono sicuramente suggerimenti, se si vogliono cogliere, per cambiare non solo gli stili, ma la sostanza stessa dei comportamenti correnti: troppo spesso 'tossici' per arroganza, egoismo, autoritarismo, onnipotenza, indifferenza sociale. E come tali non solo nocivi ai climi di convivenza organizzativa, ma stupidamente ottusi anche verso il mercato, e dunque controproducenti per i fini stessi del sistema delle imprese.
Lo sforzo dell'autore è quello di convincerci, pure con esempi piccoli ma significativi, che in fondo Gandhi può non essere così incongruo come sembrerebbe di primo acchito rispetto al freddo mondo aziendale, tutto calcolo e profitti.
Va tuttavia ammesso che percorre il libro, ineliminabile, un certo alone di 'utopicità'. E il rischio che ne consegue è che, se questa sensazione non viene tenuta sotto controllo dal lettore, si possa rigettare anche 'quel tanto di possibile' che, appunto perché 'possibile', chiederebbe solo di essere messo in pratica.
Può essere di aiuto, a questo proposito, non dimenticare la storia: pure l'indipendenza dell'India pareva un'utopia prima di essere raggiunta, a maggior ragione perché Gandhi immaginava di strapparla all'Inghilterra con la sola e rigorosa prassi della 'non-violenza'. Eppure il 'miracolo' ci fu: e fu tutto 'terreno'. Affidato alla leadership e alla tenacia di un uomo e alla fiducia dei tanti che lo seguivano: e resta un grande insegnamento anche per noi, oggi. Forse taluni cambiamenti, nelle organizzazioni e nel business, li diciamo impossibili per crederli tali e restare 'accomodati' nel nostro presente; e forse talvolta chiamiamo 'utopia' semplicemente ciò che non abbiamo il coraggio (la forza, la perseveranza) di realizzare.
Può essere di aiuto, a questo proposito, non dimenticare la storia: pure l'indipendenza dell'India pareva un'utopia prima di essere raggiunta, a maggior ragione perché Gandhi immaginava di strapparla all'Inghilterra con la sola e rigorosa prassi della 'non-violenza'. Eppure il 'miracolo' ci fu: e fu tutto 'terreno'. Affidato alla leadership e alla tenacia di un uomo e alla fiducia dei tanti che lo seguivano: e resta un grande insegnamento anche per noi, oggi. Forse taluni cambiamenti, nelle organizzazioni e nel business, li diciamo impossibili per crederli tali e restare 'accomodati' nel nostro presente; e forse talvolta chiamiamo 'utopia' semplicemente ciò che non abbiamo il coraggio (la forza, la perseveranza) di realizzare.
Da questo punto di vista a Zittlau va reso il merito di richiamarci a una riflessione che va davvero alla radice del nostro modo di essere: e ci interpella prima in quanto persone e poi, se abbiamo questo ruolo, in quanto manager.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
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Nel marzo del 1936, all’apice della fama, spiega: «Non esiste un gandhismo e non desidero lasciare nessuna setta». Quattro anni dopo si vede costretto a sciogliere un circolo di suoi fedeli seguaci perché gli sembrano troppo fanatici. E dichiara: «Se il gandhismo è un altro modo per definire il settarismo, allora merita di essere distrutto». (Jörg Zittlau, "Gandhi per i manager", 2003, Ponte alle Grazie, 2015)
Il piccolo Mohandas Karamchand Gandhi aveva circa dieci anni quando un ispettore scolastico fece visita alla sua scuola. Chiese a Mohandas e ai compagni di scrivere cinque parole inglesi. Quando il piccolo Gandhi scrisse «kettel» invece di «kettle», il maestro gli sussurrò di sbirciare sulla lavagnetta del vicino. Un’autentica seduzione per ogni bambino, perché cosa c’è di più bello se non copiare a piacere con l’espressa approvazione del maestro? Ma Mohandas si rifiutò di farlo. Non gli sarebbe mai nemmeno venuto in mente di farsi bello alle spalle di un compagno. Perché non si tratta d’altro, come sottolineerà più tardi, che di un atto di violenza. E Gandhi nega categoricamente la violenza. Naturalmente si potrebbe obiettare che quando si è giovani è lecito non essere ancora così rigidi riguardo alla morale. Da adulti, tuttavia, saranno le circostanze della vita a spingerci di tanto in tanto verso le piccole menzogne e gli imbrogli. Gli stessi moralisti sono costretti a volte a tradire i loro princìpi etici. Ma è proprio ciò che Gandhi non tollererebbe. Il Mahatma è certo che in fin dei conti ci sono solo buoni motivi per tener fede ai propri princìpi etici, ma nessun buon motivo per dimenticarli con leggerezza. (Jörg Zittlau, "Gandhi per i manager", 2003, Ponte alle Grazie, 2015)
Per Gandhi questo duplice atteggiamento è insostenibile: «Sono fermamente convinto, e l’esperienza me lo conferma, che quando una persona viola in qualsiasi modo un principio morale, questo influisce anche su altre sfere. L’opinione comune secondo la quale una persona immorale non può far danni in politica o nel lavoro è sbagliata. Altrettanto sbagliata è l’opinione che se qualcuno viola i princìpi morali in ambito lavorativo possa tuttavia essere morale nella vita privata e famigliare. Quindi non appena facciamo qualcosa di male dovremmo combattere ciò che ci spinge a farlo». (Jörg Zittlau, "Gandhi per i manager", 2003, Ponte alle Grazie, 2015)
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