L’infermiera Bronnie Ware ha raccolto in un libro («Vorrei averlo fatto» il titolo italiano) i rimpianti dei malati terminali che ha accompagnato al traguardo. Vi sorprenderà sapere, o forse no, che il rimpianto più diffuso è: «Mi è mancato il coraggio di vivere la mia vita senza preoccuparmi di quello che gli altri si aspettavano da me». La sensazione che la vita vera si trovi in un Altrove che abbiamo paura di raggiungere. Ne diamo la colpa agli altri, coltivando l’idea che le responsabilità che abbiamo nei confronti del prossimo costituiscano le sbarre di una gabbia contro cui vanno sistematicamente ad abbattersi i nostri tentativi di spiccare il volo. Ma si tratta di un alibi che ci raccontiamo per tutta la vita e anche in punto di morte.
In realtà le sbarre ce le costruiamo da soli, e sono i «Non» di cui costelliamo le nostre giornate: Non si può, Non si deve, Non ce la faccio, Non è possibile, Non dipende da me. I saggi - e questa infermiera, a furia di vivere in mezzo alla morte, pare esserlo diventata - ci rivelano che certi rimpianti suonano autoassolutori. Ciascuno ha la vita che è capace di vivere. E quasi sempre è una vita inconsapevole, governata dalle abitudini, dalle mode, dalle tante piccole scelte compiute in automatico che condizionano quelle successive. Così ci adeguiamo a un’esistenza a bassa intensità, aggrappandoci alla nostalgia dell’Altrove come a una coperta di Linus che ci permette di non accorgerci che l’Altrove è qui davanti a noi perché è già dentro di noi. Ci lamentiamo per i sogni non realizzati, quando gli unici sogni che dovremmo rimpiangere sono quelli per i quali non abbiamo combattuto.
*** Massimo GRAMELLINI, giornalista e scrittore, La vita di fianco, 'La Stampa', 5 settembre 2015, qui
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