Ci meditava da tanto. Avrebbe già dovuto farlo. Ma aveva sempre rimandato.
E se poi…?
Non voleva neppure formularlo, il dubbio.
Eppure, bisognava che lo facesse. Era l’unico modo per sapere.
Così quella mattina lo fece.
Appena si aprì la riunione, lo disse.
«Lascio».
Tutti smisero il chiacchiericcio classico che precede l’avvio dei lavori: era lunedì, molti commentavano il fine settimana, qualcuno era stato in montagna a sciare.
Alzarono la testa e lo fissarono.
Silenzio assoluto.
Finché il responsabile della sezione gialla, interpretando il pensiero di tutti, disse:
«Scusa?».
Lui ripeté.
«Lascio».
«Lasci?».
«Sì, lascio. Come si dice in italiano lasciare?».
Intervenne il responsabile della sezione rossa.
«Ma lasci cosa?».
Lui sospirò.
«Lascio la direzione».
«Lasci la direzione? E perché?».
Aggiunse il responsabile della sezione verde:
«E poi, così, sui due piedi?».
Lui sorrise.
«Ne ho solo due, di piedi. Sono costretto a usare questi».
Nessuno apprezzò l’ironia.
Riprese: «Firmo ancora questo numero. Farò un editoriale di commiato. Poi starà a voi».
Si sovrapposero varie reazioni.
«Ma non capiamo». «Andavamo così bene». «Sono sette anni ormai». «La rivista funziona, ha assunto una sua fisionomia precisa». «Perché cambiare?». «E poi, ora chi sarà direttore?».
La domanda più insistente, com’è ovvio, era perché. Gliela posero più volte, in modo diretto. Ma lui faceva finta di non sentirla.
Lasciò sfogare i commenti.
Quindi informò: «Il prossimo numero lo comporrete voi, in piena autonomia. Poi, per il numero successivo immagino che l’Associazione avrà individuato il mio successore».
«E ci lasci così, senza aggiungere altro?», domandò la responsabile della sezione bianca. «Mi sembra tutto così strano. Ammetterai che è un po’ kafkiana la cosa».
Lui fece capire che stava per congedarsi.
«Vi va tra quindici giorni a casa mia? Celebreremo i nostri sette anni di lavoro insieme. In allegria, naturalmente. Anche perché non ho nessuna intenzione di sparire, a meno che siate voi a dirmi di non farmi più vedere».
Si fermò per qualche secondo, per vedere l’effetto.
Nessuno fiatò.
Allora concluse: «Sì, continuerò a rompervi un po’ le scatole: mica per altro, sapete che se no non mi diverto…».
* * *
Il mese successivo passò in fretta. Il comitato di redazione si risollevò dalla sorpresa e si convocò tre volte per cercare di mettere a punto le linee del nuovo numero.
Le riunioni erano accese. Ogni sezione – la gialla, la rossa, la verde, la bianca, la nera, la blu – aveva idee da vendere. Ogni responsabile voleva spazio sul giornale per i materiali che diceva di avere già pronti o che comunque si impegnava a raccogliere. Il difficile era trovare la sintesi. Era tanto difficile che pareva impossibile.
Il fatto è che mancava un regolatore. E tutti volevano decidere indipendentemente dagli altri.
Ci furono momenti di tensione. Volarono anche parole grosse. Più di uno minacciava dimissioni. E comunque cominciava a serpeggiare la delusione: il tempo stringeva e non si vedevano risultati.
I giorni, inesorabili, passavano. E già due volte avevano violato i vincoli di tempo che loro stessi si erano dati nella procedura, condivisa, di lavorazione.
Arrivarono alla scadenza improrogabile: dalla riunione di quella mattina doveva uscire il numero da consegnare al grafico per l’impaginazione finale.
O adesso, oppure sarebbe stato troppo tardi. Il numero non sarebbe uscito.
La riunione non fu diversa dalle altre. La tensione era alle stelle. Tutti cominciavano a temere che non ce l’avrebbero fatta.
Un’ora prima della fine dei lavori, qualcuno bussò alla porta della sala. Loro erano tanto presi dalle discussioni che neppure risposero. La porta si aprì.
Nell’indifferenza generale comparve una bambina.
Avrà avuto sette anni. Piccola, ma non gracile. Bionda. Occhi azzurri. Come tutti i bambini di oggi.
Aveva una bacchetta in mano, di quelle che usano i formatori per indicare le slide sullo schermo. La battè con determinazione sulle gambe della lavagna a fogli mobili, per zittire il vocìo e chiedere attenzione.
Finalmente, tutti la videro. La guardavano stupiti.
«Chi sei? Cosa vuoi?», chiese il responsabile della sezione nera, un po’ irritato.
«Mi chiamo Arcobalena», rispose la bambina con voce alta e ferma, in modo che tutti la sentissero.
«Arcobalena? Ma è la testata della nostra rivista», precisò subito la responsabile della sezione gialla.
«Lo so», rispose la bambina.
Aveva un sorriso dolce, ma enigmatico. Accarezzava la sciarpina che le avvolgeva il collo: anch’essa aveva i colori dell’arcobaleno.
«Non ci hai ancora detto cosa vuoi da noi», intervenne la responsabile della sezione bianca.
Cercava di apparire gentile, ma era evidente che era seccata per la strana interruzione.
Le venne in soccorso il responsabile della sezione rossa:
«Arcobalena, scusaci, ma come vedi siamo indaffarati: tra un’ora dobbiamo consegnare il numero della nostra rivista. Siamo talmente confusi che forse neppure ce la facciamo. Non possiamo perdere tempo. Se ci lasci continuare, ci fai un favore…». Ci mise tutta la cortesia di cui fu capace, ma le parole erano ferme e ultimative.
«Sono qui perché mi avete invitato», rivelò Arcobalena.
«Invitata? Tu da noi? Noi ti abbiamo invitata? E chi? E quando?».
Il responsabile della sezione nera, sempre più stupito, si guardò in giro per cercare supporto.
Poi, per essere sicuro di non sbagliare, domandò ai colleghi: «Qualcuno ha invitato questa bambina alla riunione?».
Ovviamente, tutti scossero la testa.
«Strano», riprese Arcobalena senza scomporsi. «A me risulta di essere stata invitata. Da tutti voi, per giunta. Non da qualcuno in particolare. Comunque, se non mi volete, non c’è problema. Me ne vado».
La responsabile della sezione bianca non riuscì a tenere per sé il disorientamento.
«Senti, Arcobalena, questa storia non ci è chiara, però ora non abbiamo certo tempo per capire. Facciamo così, torna tra un’ora. Tra un’ora, la riunione dovrà per forza essersi conclusa: o abbiamo il numero della rivista pronto, oppure dichiareremo il nostro insuccesso come gruppo di redazione. Allora tu ci spiegherai meglio chi sei e cosa sei venuta a fare stamattina da noi. Ti va?».
Ce l’aveva messa tutta per non sembrare villana: quella bambina, non sapeva perché, ma le faceva tenerezza. Le piaceva. Come avesse qualcosa di familiare.
Arcobalena, sempre con il suo sorriso misterioso, acconsentì volentieri e se ne uscì facendo ciao con la manina.
«A dopo, allora».
«A dopo», rispose il gruppo.
«Però, carina quella bambina, vero?», commentò la responsabile della sezione gialla.
Tutti annuirono.
Più di uno, quasi parlando a se stesso, sospirò: «Eppure mi pare quasi di averla già vista…».
Trascorse l’ora pattuita. La riunione era terminata. L’appuntamento con il grafico, per la consegna del numero, era tra mezz’ora.
Arcobalena ribussò alla porta.
Tutti, da dentro, con voce rilassata, ripeterono in coro: «Avanti».
«Ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta, abbiamo lo schema del numero».
Il gruppo si stava abbracciando: ognuno si felicitava con il collega.
«Ci meritiamo un brindisi. Chiamiamo il bar e facciamoci portare uno spumante. Dobbiamo festeggiare. Anche senza il direttore ci siamo riusciti…».
Arcobalena partecipava della contentezza.
«Ecco, adesso puoi dirci cosa volevi», disse la responsabile della sezione bianca.
«Non c’è più bisogno», rispose Arcobalena, sempre più sorridente. Mostrava un atteggiamento accattivante, un po’ sornione.
«Come non c’è più bisogno?», chiese il responsabile della sezione verde, il quale finora era rimasto silenzioso.
«Avevo bisogno di quello che avete fatto. Ora debbo andare, ci vediamo ancora».
E Arcobalena, con una risatella complice, era già uscita.
«Aveva bisogno di quello che abbiamo fatto? Ma che significa? Cosa voleva dire quella bambina?».
Era sempre il responsabile della sezione verde, che di temperamento mal sopportava gli enigmi.
Fu in quel momento che la responsabile della sezione bianca si accorse della busta: era di carta gialla, spessa, un formato A4 abbondante. Arcobalena l’aveva abbandonata sulla sedia, appena entrata. Poi, uscendo, non se l’era ripresa.
Il responsabile della sezione verde quasi la strappò di mano alla responsabile della sezione bianca. «Proviamo a vedere cosa c’è dentro…».
Aprì con circospezione. Estrasse un insieme di fogli. Fitti di appunti, disegni, rimandi. Erano lo schema e i materiali del numero appena composto. Erano i ‘loro’ fogli. Quelli su cui avevano faticosamente lavorato tutta la mattina.
Il gruppo si catapultò in corridoio, per cercare Arcobalena. Che naturalmente era già in strada. Al taxi, aveva dato l’indirizzo del direttore: colui che un mese fa aveva dato le dimissioni.
* * *
«Allora?», le stava chiedendo il direttore con un po’ di apprensione.
Era nel suo ufficio: sulla scrivania campeggiavano gli ultimi numeri di Arcobalena, la rivista che aveva diretto per sette anni.
«Dubitavi?».
La bambina si divertì a tenerlo sulla corda.
«Secondo te, come è andata?».
«Hai imparato anche a ribaltare le domande? Vorrai mica metterti in consulenza anche tu…», scherzò il direttore. «Dai, dimmi che hanno composto il numero».
«Sì, a quest’ora ce l’avrà già in mano il grafico».
Il direttore si rilassò sulla poltrona.
Ora aveva la conferma. Quello che voleva sapere lo sapeva.
Ce l'avevano fatta. Senza di lui. Da soli.
In fondo, era stato un buon direttore.
*** Massimo Ferrario, Il Direttore e Arcobalena, ‘Direzione del Personale’, numero speciale, dicembre 2007.
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