C’era una volta un Principe impaziente di imparare i segreti del mondo e della conoscenza.
Il Re suo padre, desideroso di accontentare il figlio, chiamò i dignitari di corte e li spronò a cercare tra i migliori sapienti del Regno chi potesse meglio aiutare il Principe a imparare.
Un giorno il ministro più fedele del Re venne informato che nel regno viveva uno strano personaggio che girava di paese in paese.
Lo chiamavano Vagabondo, appunto.
Aveva un carattere difficile, non amava frequentare molta gente, ma chi aveva avuto la fortuna di riuscire a entrare in contatto con lui era rimasto sorpreso per la originalità del suo pensiero, tanto che ormai molti lo chiamavano Maestro e si inchinavano al suo passaggio.
La fama raccontava che avesse incontrato un Vecchio, nell’alta montagna, ormai morto da anni, il quale gli aveva confidato i segreti dell’apprendimento. Nessuno meglio di lui, quindi, poteva aiutare il giovane Principe.
Il Re ordinò di farlo venire subito a corte e di presentarlo al Principe.
Avvenne l’incontro. Il Principe espose il suo problema al Vagabondo.
«Appartengo a una stirpe nobile, che ha sempre attinto alle fonti più pure del sapere. Voglio che questa tradizione prosegua. So di essere giovane: i cortigiani di cui è circondato mio padre mi ripetono che avrò tempo per imparare. Ma io ho bisogno di imparare presto. Quando sarò vecchio, non mi servirà più sapere quello che saprò. Devo sapere ora. E’ ora che mi serve fare esperienza, provare emozioni e sentimenti. Vivere, insomma. Tu mi devi aiutare. Ti pagherò bene. E avrai una delle stanze migliori del palazzo tutta per te. Quindi dovrai smettere di vagabondare per il regno. La tua fama parla della tua sapienza. Voglio che tu mi insegni.»
Il Vagabondo chiese se il Principe glielo stesse ordinando, oppure lo stesse pregando.
Un po’ seccato, il Principe rispose:
«Come vuoi. Che sia un ordine o una preghiera, non importa: tu mi insegnerai e io imparerò. A partire da subito».
Quindi tacque, aspettando che il Vagabondo facesse qualche commento. O iniziasse da subito a insegnargli.
Ma il Vagabondo fece un inchino e uscì dalla sala, senza che il Principe, stupito, riuscisse a dire nulla.
La mattina seguente, alle 9.00, il Vagabondo si ripresentò.
Consegnò al Principe un foglio: vi era scritto che ogni giorno, alla stessa ora, lui avrebbe avuto l’incontro con il Principe. E che l’incontro sarebbe durato mezza giornata. Per tutto il tempo, il Principe avrebbe dovuto restare in rigoroso silenzio. Poteva leggere, scrivere, sbrigare le pratiche attinenti al suo ruolo, ma non doveva interloquire.
Doveva solo attendere. Era una regola assoluta. Sottolineata in rosso.
Il Vagabondo aspettò che il principe leggesse il foglio. Quindi si inchinò e uscì dalla sala.
Nei giorni seguenti accadde quello che era previsto.
Il Vagabondo arrivava, si sedeva nella grande sala delle riunioni di fronte al Principe, dietro un lungo tavolo rettangolare, e osservava il Principe.
Poi, al termine della mattinata, senza aver detto neppure una parola, si alzava, si inchinava e usciva.
Il Principe era sconcertato. Il Vagabondo non parlava e lui obbediva alla regola del silenzio. D’accordo, doveva attendere. Ma cosa?
Eppure il Vagabondo non aveva perso la parola. Il pomeriggio e la sera lo vedevano per la città: chiacchierava, mangiava, beveva. Poi, a metà notte, sceglieva una pianta con i rami ampi e frondosi, si raggomitolava ai suoi piedi con una coperta che si portava sempre appresso e si addormentava fino al sorgere del sole. La stanza che il Principe gli aveva proposto era rimasta vuota: non aveva speso una parola neppure per rifiutarla.
Trascorse una decina di giorni senza che accadesse nulla.
Poi, una sera, il Principe venne a sapere, da un cortigiano, che Alì, il più grande dei cantanti mai esistito, aveva deciso di trasferirsi nel Regno e si era stabilito in città. Aveva una voce unica, che modulava come solo un dio sarebbe stato capace, e dicevano che sapesse far provare emozioni indicibili, che struggevano il cuore. Chi l’aveva ascoltato citava un’esperienza mai provata. Ma era difficile che il Cantante si esibisse.
Il Principe ordinò al cortigiano di contattare Alì perché venisse a corte a cantare per lui.
Il Cantante ricevette il cortigiano con cortesia e gli disse di riferire che avrebbe conosciuto volentieri il Principe. Ma non avrebbe cantato se non quando lui, e non il Principe, avesse deciso.
Aggiunse: «Il tuo Principe non sa nulla di ciò che è necessario all’arte del canto. Dovrà attendere. Come tutti quelli che vogliono essere rapiti dal mio canto».
L’incaricato del Principe non capì. E chiese: «Aspettare cosa?».
Alì ripose: «Che arrivi il momento buono. Che io sia nella giusta disposizione per cantare. Dicono che io sia il più grande cantante di tutti i tempi. Non so se è vero. Ma so che per cantare bene occorre si realizzi sempre una condizione fondamentale: sapere con precisione quando si può cantare e quando non si può».
Il cortigiano riportò queste parole al Principe una mattina, in una delle riunioni in cui era presente, sempre silenzioso, il Vagabondo.
Il Principe sentì crescere ancor più il desiderio di ascoltare il Cantante. Quanto più lo desiderava, tanto più si arrabbiava per il rifiuto.
Poi sbottò, quasi disperato: «Possibile che non esista un modo per costringere quest’uomo a cantare?».
Il Vagabondo allora si alzò dal tavolo e si avvicinò al Principe.
«Vieni con me. Andiamo a trovare questo cantante. Prima però ordina che ti portino degli abiti poveri, con cui tu ti possa travestire senza essere riconosciuto».
Così avvenne. I due attraversarono la città e bussarono alla porta di Alì. Ma lui, che era abituato ai visitatori importuni che lo pregavano sempre di cantare, urlò che non avrebbe cantato per nessuna ricchezza al mondo e che voleva solo essere lasciato in pace.
Allora fu il Vagabondo che si acquattò sotto la finestra del Cantante e cantò. Era una delle melodie più note di Alì: tra le più difficili e commoventi.
Cominciò con voce sommessa, poi aumentò sempre più il volume. La voce si alzava limpida, flessuosa. Le parole descrivevano un amore perso.
Il Principe era ammutolito: il suo cuore viveva la disperazione dell’amante che si tormentava per il rifiuto dell’amata.
Il Vagabondo aveva un’intonazione perfetta. Poi, di proposito, sbagliò una tonalità. Fu uno sbaglio che solo un intenditore avrebbe potuto cogliere. E infatti il Principe non se ne accorse.
Quando il Vagabondo terminò il suo canto, il Principe aveva le lacrime agli occhi.
Supplicò: «Ancora. Ancora una volta, ti prego.»
Il Vagabondo annuì. Si schiarì la gola e tentò di riprendere.
Ma Alì, apparso sulla terrazza della sua lussuosa residenza, lo precedette.
E il Vagabondo, sorridendo al principe come se se lo aspettasse, subito si trattenne.
La nota sbagliata era stata giusta. Il Cantante non aveva resistito a quella imperfezione e finalmente aveva sentito il bisogno di cantare.
Il canto si dispiegò: puro, limpido, perfetto. Il Principe, che pure si era commosso sentendo cantare Vagabondo, stavolta era come pietrificato. Aveva il respiro trattenuto. Si sentiva trasportato in cielo. E fu preso da un’emozione mai provata. Avvolto da un senso di bellezza sconfinato, apprese per la prima volta, con il cuore e con la mente, il legame stretto con l’universo, sperimentando l’essenza di un sentimento profondo e intimo di unità e di armonia.
Terminato il canto, Alì abbandonò la terrazza e rientrò in casa.
Per tutta la notte il Principe sentì risuonare dentro l’anima la magia di quella melodia e di quella voce. Era incredibile come anche una semplice canzone potesse far vivere sensazioni così intense, tenere e soavi e al tempo stesso inquiete e infelici.
Il Principe fece recapitare al Cantante un dono prezioso.
Ringraziò Vagabondo per la sua opera di intercessione e gli propose di diventare suo consigliere principale per tutti gli affari del regno.
Ma Vagabondo rifiutò, spiegando:
«Tre condizioni sono state necessarie perché tu udissi quello che hai udito: la presenza di Alì, la presenza tua e la presenza di un uomo che stabilisse il legame indispensabile fra te e Alì».
«Che cosa vuoi dire?», chiese il Principe.
«Quello che è stato vero per quel cantante e quella canzone, vale per ogni insegnamento. Occorrono il momento giusto, il luogo e l’uomo».
«Vuoi dire che dobbiamo aspettare, tu e io, fino a quando non si siano realizzate queste tre condizioni?».
«Ho detto quel che ho detto», rispose Vagabondo.
E si congedò con il solito inchino.
L’indomani, alle 9, il Principe e Vagabondo erano seduti al grande tavolo della sala del palazzo.
Ambedue silenziosi. Come sempre.
Il Principe aspettava.
*** Massimo Ferrario, Il Principe e il Vagabondo, 2013-2015, per Mixtura - Riscrittura di una famosa storia sufi, riportata anche da Jean-Claude Carrière, Il derviscio e il celebre cantante, in Jean-Claude Carrière, Il circolo dei cantastorie. Storie, storielle e leggende filosofiche del mondo intero, 1998, Garzanti, Milano, 1998.
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