Da tempo si sa (si dovrebbe sapere) che quando si valuta un collaboratore non si valuta la persona, ma la prestazione. Cioè il comportamento tenuto sul posto di lavoro rispetto al job assegnato, agli eventuali obiettivi più o meno condivisi e ai risultati raggiunti.
Recentemente (mi è stato riferito) il direttore Hr di una multinazionale (una volta, più propriamente si diceva 'direttore del Personale') ha liquidato in una frazione di secondo un collaboratore dicendo che era ‘valoriale’. Dunque inadatto all’azienda.
Recentemente (mi è stato riferito) il direttore Hr di una multinazionale (una volta, più propriamente si diceva 'direttore del Personale') ha liquidato in una frazione di secondo un collaboratore dicendo che era ‘valoriale’. Dunque inadatto all’azienda.
Naturalmente il direttore Hr, affermando questo, non era consapevole di essere
valoriale. Lui, ovviamente, si riteneva 'a-valoriale'. Probabilmente di più: si
riteneva ‘giusto’. Mentre i valoriali, com'è logico, sono sempre gli altri: e per questo ‘sbagliati’.
E
così, con una sola parola, il giovane manager sicuramente alla moda ha fatto valutazione della prestazione e del
potenziale insieme: e la persona, giudicata più per quello che pensa che non
per come si comporta, se non verrà presto accompagnata alla porta, capirà (prima o poi, ma più
prima che poi) che sarà bene che se la apra per conto suo, la porta. E vada alla
ricerca di persone e di aziende più intelligenti.
Esiste
ancora infatti una minoranza, per quanto minima, di imprese e persone che i
‘valoriali’ li cerca. Vuole cioè esseri umani che, appunto in quanto esseri
umani e non esseri ameboidi, non solo hanno valori (ignoti alle amebe), ma ne
sono consapevoli e provano pure ad affermarli. Nel
rispetto degli altri. E in congruenza con il contesto in cui sono inseriti,
naturalmente. Nel senso, ovvio, che se uno ha nella sua visione di vita la
distruzione fisica del sistema delle imprese e intende praticare con coerenza
quotidiana questi suoi valori, non si farà assumere da un’impresa. O se
avverrà, metterà in conto, in questo caso, di essere ‘naturalmente’
incompatibile con il contesto: neppure si meraviglierà se qualcuno, quando lo scoprirà, lo inviterà
ad imboccare la porta. E
comunque, in questo caso, ogni licenziamento sarà giustificato. Non perché il
tizio è valoriale, ma perché il tizio ‘mette in atto azioni’ (e non solo ‘pensa
valori’) inconciliabili con l’ambiente in cui è chiamato ad operare.
Situazioni
sempre possibili. In teoria.
In pratica ormai, trascorsi e sepolti gli anni di
piombo, più uniche che rare.
E
immagino che l’assunto di cui sopra non fosse un appartenente alle (fortunatamente oggi inesistenti) nuove
brigate rosse.
Allora,
dove voglio arrivare? Semplicemente ad affermare che nessuno è senza valori (si
spera). E chi dice di non averli, ha i valori del non avere valori. O è
imbevuto dei valori indiscussi del potere istituzionale che ossequia.
Questa ‘ideologia’ (termine che io uso nel significato strettamente etimologico e positivo di ‘sistema di idee e valori’, sinonimo di ‘Weltanschauung’), che nega l’ideologia, è un’ideologia anch’essa. Con l’aggravante della pericolosità: perché uccide come un gas inodore. Producendo cerchiobottismo, terzismo. In sostanza: conformismo. Quell'aria che ci ammorba. Dentro e fuori il mondo del lavoro.
Nelle imprese gira da anni la retorica della ‘passione’. Addirittura alcune aziende, con afflato pseudoreligioso, invocano la ‘dedizione’. Senza arrivare alla perversione di chi mette la dedizione tra i comportamenti di ‘merito’ (qualcuno ci ha provato: anche con ruoli politico-associativi di rilievo), è indubbio che ‘servono’, alle imprese ma pure alle persone interessate, ‘collaboratori’. Cioè persone ‘piene’, consapevoli del potere che hanno, che investano energia/passione in compiti da cui possano apprendere, che siano ingaggiate e motivate, capaci di giocare se stessi nella logica ‘io-noi’ (e non solo ‘io-io’), con la ‘giusta’ ambizione di crescere in carriera e professionalità, che sappiano assumersi la responsabilità di ciò che fanno (senza proiettare ad altri i propri insuccessi). Eccetera eccetera.
Nelle imprese gira da anni la retorica della ‘passione’. Addirittura alcune aziende, con afflato pseudoreligioso, invocano la ‘dedizione’. Senza arrivare alla perversione di chi mette la dedizione tra i comportamenti di ‘merito’ (qualcuno ci ha provato: anche con ruoli politico-associativi di rilievo), è indubbio che ‘servono’, alle imprese ma pure alle persone interessate, ‘collaboratori’. Cioè persone ‘piene’, consapevoli del potere che hanno, che investano energia/passione in compiti da cui possano apprendere, che siano ingaggiate e motivate, capaci di giocare se stessi nella logica ‘io-noi’ (e non solo ‘io-io’), con la ‘giusta’ ambizione di crescere in carriera e professionalità, che sappiano assumersi la responsabilità di ciò che fanno (senza proiettare ad altri i propri insuccessi). Eccetera eccetera.
Ma
soprattutto ‘servono’ persone che non abbiano introiettato i valori di fantozzi
e si facciano zerbini quando il capo comanda. E quindi vogliano discutere. E
non si accontentino di fare le pecore. Passando così per valoriali giusti.
Come
pure un’ameba sarebbe capace di fare.
*** Massimo
Ferrario, in ‘#PensieriFormativi’, 319, da 'LinkedIn', ‘Impresa Diversa’, 12 giugno
2014
In Mixtura ark #Spilli di M. Ferrario qui
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