Nel momento in cui è di moda squalificare gli studi classici, e in generale umanistici, accusati di ‘inutilità’ perché troppo lontani dal quel ‘fare produttivo’, miope e asfittico, che solo sembra servire al mondo del lavoro (il quale infatti è costretto ad arrabattarsi, sempre più cieco e senz’anima, dentro una crisi che non è solo economica), una voce entusiasta difende la bellezza, e l’’utilità inutile’, dei poeti e dei tragici greci: riprende e reinterpreta il loro messaggio, in uno scambio emozionato, a tratti lirico e struggente, con un giovane figlio condannato da una malattia incurabile.
Da ogni pagina fuoriesce, incontenibile, la passione, raffinata e colta, del Vecchioni-insegnante.
Basti questo dialogo, verso la fine, tra il protagonista e il ragazzo, a confermare il taglio infiammato e ispirato che percorre il romanzo:
«… La poesia mi porta fuori da me; se io morissi domani con l’Antigone sul petto, non chiederei altro, avrei sentito, avrei avuto tutto.»
«Sì, papà, ma io voglio cose, non letteratura.»
«Hai ragione. Ma io non sono capace, non sono in grado di darti tutte quelle meravigliose cose che vorresti avere. Sto provando a darti la letteratura come cosa: là dove non puoi avere, cerco di farti sognare. La poesia è un sapore, un odore, una visione… Io, in fretta, di corsa, nel tempo che ho e che abbiamo, ti voglio passare non quel che vedi o credi di vedere, non quel che ami o credi di amare, ma la bellezza di vedere, di amare: non avrò modo, e lo sappiamo, di dirtelo esempio dopo esempio nella tua vita; non ci è concesso, non è possibile. Devo farlo subito, ammassando tutti i languori e i deliri di anni e anni in un attimo che li concentri e te li renda vivi, come vissuti».
Aggiungo due annotazioni a commento del titolo.
* La prima allude al bell’ossimoro che pare marcare il libro: da una parte, il ‘mercante’, che richiama ovviamente il ‘fare affari’ di chi bada ai risultati monetari e non ha tempo per le elucubrazioni di anima e intelletto; dall’altra, l’accostamento al termine ‘luce’, usato come immagine ricca di valenze ‘aeree’ e decisamente poco materialistiche.
* La seconda suggerisce un dubbio. Forse il ‘mercante di luce’, se per buona parte del racconto è impersonato dal padre, ‘ammalato’ di poesia e classicità, prima assume le sembianze del figlio, che sembra cercare di ‘bonificare’ la sua malattia con la malattia trasmessagli dal padre; e alla fine, ancor più verosimilmente, pare sciogliersi nella coppia padre-figlio. Del resto, la chiusa del capoverso sopra riportato, con il ‘noi’ quasi ‘inciso’ proprio nelle ultime pagine del romanzo, sembra dichiararlo: «Noi, Marco, stiamo tentando di cantare un poema in una strofa. Una lirica in un verso».
Un bel libro. Per chi voglia essere ‘toccato dentro’.
Una scelta che, almeno ogni tanto, sarebbe bene venisse compiuta. Da chi apprezza la ‘luce’. E magari anche da quei ‘mercanti’ che vorrebbero riuscire ad essere ‘meno’ mercanti. Cioè ‘meglio’.
(mf)
Da ogni pagina fuoriesce, incontenibile, la passione, raffinata e colta, del Vecchioni-insegnante.
Basti questo dialogo, verso la fine, tra il protagonista e il ragazzo, a confermare il taglio infiammato e ispirato che percorre il romanzo:
«… La poesia mi porta fuori da me; se io morissi domani con l’Antigone sul petto, non chiederei altro, avrei sentito, avrei avuto tutto.»
«Sì, papà, ma io voglio cose, non letteratura.»
«Hai ragione. Ma io non sono capace, non sono in grado di darti tutte quelle meravigliose cose che vorresti avere. Sto provando a darti la letteratura come cosa: là dove non puoi avere, cerco di farti sognare. La poesia è un sapore, un odore, una visione… Io, in fretta, di corsa, nel tempo che ho e che abbiamo, ti voglio passare non quel che vedi o credi di vedere, non quel che ami o credi di amare, ma la bellezza di vedere, di amare: non avrò modo, e lo sappiamo, di dirtelo esempio dopo esempio nella tua vita; non ci è concesso, non è possibile. Devo farlo subito, ammassando tutti i languori e i deliri di anni e anni in un attimo che li concentri e te li renda vivi, come vissuti».
Aggiungo due annotazioni a commento del titolo.
* La prima allude al bell’ossimoro che pare marcare il libro: da una parte, il ‘mercante’, che richiama ovviamente il ‘fare affari’ di chi bada ai risultati monetari e non ha tempo per le elucubrazioni di anima e intelletto; dall’altra, l’accostamento al termine ‘luce’, usato come immagine ricca di valenze ‘aeree’ e decisamente poco materialistiche.
* La seconda suggerisce un dubbio. Forse il ‘mercante di luce’, se per buona parte del racconto è impersonato dal padre, ‘ammalato’ di poesia e classicità, prima assume le sembianze del figlio, che sembra cercare di ‘bonificare’ la sua malattia con la malattia trasmessagli dal padre; e alla fine, ancor più verosimilmente, pare sciogliersi nella coppia padre-figlio. Del resto, la chiusa del capoverso sopra riportato, con il ‘noi’ quasi ‘inciso’ proprio nelle ultime pagine del romanzo, sembra dichiararlo: «Noi, Marco, stiamo tentando di cantare un poema in una strofa. Una lirica in un verso».
Un bel libro. Per chi voglia essere ‘toccato dentro’.
Una scelta che, almeno ogni tanto, sarebbe bene venisse compiuta. Da chi apprezza la ‘luce’. E magari anche da quei ‘mercanti’ che vorrebbero riuscire ad essere ‘meno’ mercanti. Cioè ‘meglio’.
(mf)
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