Indicherei almeno tre ragioni per suggerire la lettura di questo libro.
• La prima è la più banale: è scritto veramente bene. Dovrebbe essere sempre così. Ma chi è abituato a frequentare le librerie (e non solo), sa che così non è.
Qui la lettura ti cattura certamente per il contenuto, ma anche per la modalità con cui ti senti subito avvolto da una lingua scorrevole, elegante, ampia, rotonda. Anche in questo, peraltro, nessuna sorpresa: lo stile raffinato, ricco e affabulatorio dell’autore è una caratteristica risaputa, sia per chi abbia assistito ad una sua conferenza, che per chi abbia avuto con lui anche soltanto uno scampolo di conversazione.
• La seconda ragione riguarda il tema: è un racconto di formazione, in chiave di memoir, di un bambino, l’autore, che passa dall’asilo all’età adulta.
Questa scelta è di per sé il primo, e più decisivo, dei tanti ‘trucchi’ disseminati nelle pagine e che danno il titolo al libro: parlare di sé per parlare, soprattutto, di ciò che sta attorno e cresce e si muove insieme con il bambino che si fa adulto. La famiglia, il contesto storico, l’evoluzione della società diventano il vero racconto: evitato il facile rischio narcisistico del narrare del proprio ombelico, il focus è diretto a illuminare l’esterno. L’’io’ non si annulla, esiste e prende doverosamente il suo spazio, ma sa anche ‘contenersi’: sciogliersi nel ‘noi’ e allargarsi agli ‘altri’. E la storia diventa storia di un’epoca.
Il filtro con cui viene guardato il mondo sta nel ‘nocciolo duro’ di principi, valori, pensieri che tiene insieme questa famiglia ebrea, colta, anticonformista, ‘di sinistra’, generosamente aperta al sociale (nei fatti e non solo a parole), cui l’autore appartiene e sente di appartenere anche mentre sviluppa, sin dai 16 anni, un’identità autonoma, critica e per certi aspetti ribelle (andandosene di casa in conflitto aperto per affermare una sua scelta d’amore).
Il risultato di questa educazione è l’acquisizione di un pensiero valoriale forte e compatto, ma non chiuso; convinto e orgoglioso, ma non settario e sempre curioso di esplorare la diversità. Una visione che cerca di conciliare in massimo grado teoria e pratica (e pare riuscirci) dentro quel cerchio di coerenza cui spesso diciamo di tendere senza esser capaci di realizzarla.
• La terza ragione per cui è consigliabile la lettura è che si tratta di una lettura ‘terapeutica’. Attraverso questo ‘scavo’ storico, largo e profondo, leggero e ironico, ricco di episodi e aneddoti in cui si ritrovano tante persone, anche pubbliche’ (politici e intellettuali), che hanno segnato anni lontani, ritroviamo un’ispirazione oggi smarrita e invece fondamentale. ‘Vitale’, direi: nel senso più pieno del termine.
Non importa come oggi ‘pensiamo’ quel passato: se lo rimpiangiamo o lo rifiutiamo. E non importa neppure se quel passato non l’abbiamo vissuto, per ragioni anagrafiche. Ma quell’epoca resta certamente contraddistinta da un ‘fatto’: un fatto che, allora, era un ‘sentimento’ vigoroso, diffuso, condiviso. E quanto mai ‘energetico’: la convinzione cioè che esistesse (potesse esistere) un futuro.
Scrive Finzi: «So ora che tante speranze non son divenute realtà, che il futuro era truccato. Nelle ricerche sociali osservo che adesso la speranza è più debole o nulla. Ma continuo a credere che ne abbiamo bisogno più di ogni altra cosa: forse sto scrivendo per conservarne il ricordo e l’ispirazione, per non perdere la speranza della speranza.»
Ecco, il racconto di Finzi non è un’operazione-nostalgia. Ma un’operazione che, se ha fatto bene a lui, certo può fare bene anche a noi. A tutti noi, vecchi e giovani.
Ai vecchi per ritrovare qualcosa di perduto. E ai giovani per trovare qualcosa di imperdibile.
Forse «non perdere la speranza della speranza» è, alla fine, il senso profondo di questo memoir.
E in fondo, anch’esso è uno dei tanti trucchi della vita.
O forse, addirittura, è ‘il’ trucco. (mf)
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