sabato 10 settembre 2016

#FAVOLE & RACCONTI / Fedele Buonini, uno come tanti (troppi) (M. Ferrario)

Dicono che non sono più quei tempi. 
Che oggi, nelle imprese, la cultura è cambiata. Che ci vogliono persone competenti e capaci di far valere i loro talenti. Che i conformisti possono piacere, ma non fanno carriera. Che c'è bisogno di gente che abbia il coraggio delle proprie idee, sappia contrastare con argomenti anche i propri capi e voglia combattere per affermare le proprie opinioni. 
Insomma, basta ai signorsì, pronti a sbattere i tacchi e ad adulare chi sta in alto.

Dicono così, consulenti e manager.
Nelle convention. Nei seminari. Negli articoli. Nei saggi.

Lui, però, era stato selezionato proprio per il suo carattere mite, dipendente, ossequiente.
Una volta, uno come lui, rubando l’espressione al mondo militare, si sarebbe definito di ‘buon comando’. Perché dava ragione a tutti: non prendeva mai posizione. E la sua disponibilità aumentava nella misura in cui l’interlocutore apparteneva alla gerarchia superiore.

La retorica manageriale parla di proattività, iniziativa, autonomia?
Lui attendeva. Se gli veniva chiesto, eseguiva. Guai a prendersi la responsabilità di una decisione. E se fosse risultata sbagliata? I capi ci sono per questo: dicano loro che fare.
E poi con qualche amico si era confidato. Con questo suo comportamento sarebbe salito in alto: in fondo quanti sono quelli promossi dirigenti solo perché si sono dimostrati diligenti?
‘Ha ragione, dottore’, ‘Senz’altro, dottore’, ‘Come crede, dottore’. 
Erano le espressioni che più aveva in bocca. 
E le rare volte in cui il suo capo si azzardava a chiedergli un parere, lui era un campione nel tergiversare. Prima cercava di intuire il suo pensiero e poi, sempre con cautela, si lasciava andare: «Ma lei mi insegna, dottore, che in effetti il suo punto di vista consente di affrontare il problema in modo più completo…».

Qualche volta il suo intento adulatorio era stucchevole. 
E anche il suo capo avrebbe voluto un po’ di contraddittorio. 
Però poi subito ricordava il collaboratore precedente. Che, appunto, cercava di fare il ‘collaboratore’, e non era assolutamente tagliato per subire il semplice ruolo di ‘dipendente’. 
Già, che fatica ogni volta gestire le discussioni con lui: far passare i suoi ordini era impossibile, c’era sempre qualcosa che non andava. E alla fine per forza era finita come doveva finire: il giovane, definito immaturo e troppo desideroso di autonomia, era stato allontanato dall’azienda.

Sì, questo Fedele Buonini, con il destino scritto nel nome e cognome, era la persona giusta.
E poi, appena aveva scoperto che il suo capo amava la pesca, si era anche lui innamorato di esche e lenze. Si era letto tutto quello che aveva trovato sull’argomento e si era esercitato, tutti i fine settimana, nel laghetto a una decina di chilometri da casa: dove sapeva che spesso anche il capo amava rilassarsi pescando lungo le sponde.

Il capo ringraziava la buona sorte per avergli fatto incontrare un dipendente come lui.
Poteva finalmente lavorare tranquillo: ora aveva una persona affidabile, che non poneva domande, seguiva le procedure, non metteva in discussione le disposizioni.

Un giorno, ebbe l'idea di sfidarlo ad una gara: voleva proprio vedere come si sarebbe comportato fuori dalla formalità dell'ufficio. 
Sarebbero usciti in barca una domenica mattina e si sarebbero ritrovati la sera: avrebbero contato i pesci e chi avesse perso avrebbe offerto la cena all’altro.

Così avvenne.
Le loro barchette galleggiavano placide sull’acqua dall'alba.
Ognuno si era scelto una zona diversa, in base a strane ipotesi sulla maggiore pescosità dei fondali. 
Due canne erano fissate, una a prua e una a poppa. Un’altra se la tenevano in mano, scrutando pensosi l’acqua.

Ad un certo punto, il giovane sentì delle urla e si voltò. 
Il capo era finito in acqua, la sua barca si era capovolta, probabilmente per un movimento maldestro.
Fedele Buonini si mise ai remi e raggiunse l’uomo, che annaspava.
Il capo non sapeva nuotare: più si divincolava e più l’acqua gli entrava in bocca. 
Vide il giovane che gli era arrivato finalmente vicino e a malapena riuscì a gridare: 
«Buonini... sto affogando...».
Il giovane sorrise. 
«Sì, dottore». 
Il capo aveva la testa quasi sott’acqua.
Non pensò di chiedere esplicitamente aiuto: dava per scontato che il ragazzo gli avrebbe avvicinato il remo per potercisi attaccare.
E intanto, muovendo le mani a mulinello, ripeteva, sempre più a fatica e mangiandosi le parole:
«Buonini... Buonini...».
Il giovane, dall'alto della barca, continuava a sorridergli, osservandolo fisso. 
«Sì, dottore. Sono qui, dottore».
Il capo, terrorizzato, annaspava.
Tra una bevuta e l'altra farfugliò un'imprecazione e un ordine:
«Bonini, cazzo, il remo... presto...»
Solo allora il giovane, come sempre, obbedì.
E avvicinò il remo.
Ma il capo, ormai esausto, neppure lo vide: stava scomparendo sott'acqua.

* * *
Forse Fedele Buonini volle vendicarsi per tutto quello che subiva ogni giorno in ufficio.
Ma forse la spiegazione è più semplice. 
E più drammatica.
I tipi Buonini sono coerenti. Sempre. Fino in fondo. 
E in genere sono anche un po’ stupidi. Come tutti quelli che sanno solo obbedire.
Del resto, per questo loro atteggiamento, nei fatti, continuano a essere apprezzati. Sempre più. 
E più fanno  i 'cani da riporto', più fanno carriera.
Certo, qualche volta potrebbe accadere quello che qui è accaduto. 
Ma tutto ha un prezzo. 
E questo è il prezzo che si paga alla tranquillità: per essere circondati da persone che non disturbano, non pensano, attendono ordini, eseguono, ti sorridono e ti danno sempre ragione.
Anche se poi si può finire affogati.
Così come, grazie ai tanti (troppi) Buonini - che diciamo non ci piacciono, perché non sta bene dire che ci piacciono - possono finire affogate le imprese. 
E le società.
E tutti noi.

*** Massimo Ferrario, Fedele Buonini, uno come tanti (troppi), 2013-2016, per Mixtura - Libera riscrittura, con aggiunta di commento finale personale, della favola di Vhan Rhopa, Lo yesman, in Vhan Rhopa, Lo zen e l’arte aziendale, Lupetti editore, Milano, 1993. 


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