Accanto ad un relativismo “etico”, ne esiste anche uno “medico-diagnostico”.
Non solo si afferma che un unico criterio di giudizio morale non sia applicabile agli appartenenti a culture diverse, si ritiene anche che altrettanto valga anche per un criterio di giudizio diagnostico, soprattutto riguardo alla diagnosi globale di salute mentale o di malattia. Se, ad esempio, formulo una diagnosi di “Disturbo Delirante” (o paranoia) riguardo ad un appartenente, o ad un gruppo di appartenenti, ad un’altra etnia, mi si obietterà: “Ma questo lo dici dal punto di vista della “tua” cultura; per giudicare lui/loro, bisogna mettersi dal loro punto di vista”.
Così come il relativismo fa diventare tutto ugualmente morale, fa anche diventare tutto tendenzialmente sano. Almeno per quanto riguarda la Psichiatria, ciò è sbagliato. La nostra cultura, con la Psicologia del Sé kohutiana, ha elaborato un criterio di diagnosi di salute che prescinde da ogni aspetto normativo particolare, e che è applicabile ad ogni essere umano: è sano tutto ciò che rappresenta lo sviluppo coerente di un progetto inscritto nel nucleo centrale del mondo interno di ciascuno. Tale progetto è presente, in varie forme, in ciascun individuo, ed è specifico per ogni individuo: fa sì che quella persona sia lei e nessun’altra.
Se una famiglia svia il bambino dal suo progetto particolare, se sacrifica lo sviluppo delle sue caratteristiche individuali per farne un “militante” uguale agli altri, se sopprime la sua facoltà di scegliere liberamente, come individuo, chi amare e chi non amare (indirizzando il suo odio verso una categoria pre-definita di persone), ebbene, quella famiglia crea una patologia paranoide; e questo, sia che essa appartenga, sia che non appartenga alla nostra cultura.
*** Bino AG NANNI, psichiatra, 'facebook', 10 agosto 2016, qui
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