giovedì 11 agosto 2016

#QUARTAdiCOPERTINA / "Il multiculturalismo e i suoi critici", di Kenan Malik

Kenan MALIK, "Il multiculturalismo e i suoi critici"
2013, Nessun Dogma Editore, 2016
traduzione di Valentino Salvatore
pagine 58, ebook € 3,74

Testo di presentazione dell'Editore - Citazioni scelte da Mixtura

La nostra società celebra le differenze, il pluralismo, l’identità politica. Anzi, li ritiene caratteristiche emblematiche di una democrazia progressista e moderna. Tuttavia negli ultimi anni si è diffusa una certa diffidenza verso il multiculturalismo. Dopo l’11 settembre e l’escalation del terrorismo islamista, è sorto un intenso dibattito sul grado di diversità che le nazioni occidentali possono tollerare. 
In "Il multiculturalismo e i suoi critici" Kenan Malik si interroga se è possibile – o opportuno – provare a costruire un legame sociale coeso sulla base di valori comuni. Scava nell’ansia crescente intorno alla presenza dell’Altro dentro i nostri confini. Provando a identificare le strade realmente percorribili. 
Questo libro analizza non solo la relazione tra multiculturalismo e terrorismo ma anche la storia dell’idea stessa di multiculturalismo, assieme alle sue radici politiche e alle conseguenze sociali. 
Un libro autorevole su un tema che, in Italia, a torto o a ragione non è ancora stato affrontato compiutamente.


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Sono avverso al multiculturalismo non perché ho paura dell’immigrazione, odio i musulmani o voglio ridurre la diversità ma, al contrario, perché sono a favore dell’immigrazione, contrasto l’odio che monta verso i musulmani e accetto la diversità. Esiste una lunga e importante tradizione di critici, progressisti e di sinistra, verso il multiculturalismo e le idee che ne sono alla base, una tradizione che negli ultimi anni è in gran parte caduta sotto i colpi della destra. Questo attacco ha riformulato i termini del dibattito intorno al multiculturalismo e allo stesso tempo ha reso molti, a sinistra, riluttanti a sfidarlo per timore di essere associati a quelli come Bawer e Phillips o come Wilders e Le Pen. Questo libro è una critica al multiculturalismo. È anche una critica ai suoi critici. Il tema centrale è insistere sull’idea che la sfida al multiculturalismo e quella ai suoi nemici di destra siano inseparabili. (Kenan MALIK, "Il multiculturalismo e i suoi critici", 2013, Nessun Dogma Editore, 2016)

Immaginate di essere un bengalese laico che vive in una zona fatiscente di Birmingham. Non pensate a voi come musulmani e potreste non aver pensato a voi neanche come bengalesi. Ma volete un nuovo centro di aggregazione sociale nella vostra zona. È difficile avere l’attenzione del consiglio comunale insistendo sul fatto che la vostra area è povera e svantaggiata. Ma se dite che la comunità musulmana è bisognosa o le manca qualcosa, allora le casse del consiglio si aprono di colpo: non perché il consiglio sia particolarmente incline ad aiutare i musulmani, ma perché essere musulmano, piuttosto che essere “povero” o “svantaggiato”, viene registrato dalla mente burocratica come identità autentica. Con il passare del tempo, iniziate a vedervi in questi termini, non solo perché queste identità vi danno accesso a potere, influenza e risorse, ma anche perché queste identità assumono una concretezza sociale ricevendo costanti prove e conferme. È così che siete visti: quindi è come finirete per vedervi. Finirete per temere e non sopportare gli afro-caraibici, i sikh e gli irlandesi, in parte perché sono concorrenti per quella fortuna elargita con generosità dal consiglio e per il potere, in parte perché le regole del gioco dicono che la vostra identità debba essere proclamata come peculiare e differente rispetto a quelle degli altri gruppi. Essere musulmani significa anche essere non-irlandesi, non-sikh e non-afro-caraibici. 
La conseguenza è quella che l’economista indiano e premio Nobel Amartya Sen ha chiamato monoculturalismo plurale4: una politica guidata dal mito che la società sia costituita da una serie di culture distinte fra loro e omogenee all’interno, che danzano una intorno all’altra. Tale politica, ironicamente, ha contribuito a rendere questa società segmentata una realtà. Il risultato a Birmingham è stato quello di consolidare le divisioni tra comunità nere ed asiatiche, fino a scatenare disordini tra comunità. (Kenan MALIK, "Il multiculturalismo e i suoi critici", 2013, Nessun Dogma Editore, 2016)

Quelli che insistono nell’affermare che in una società pluralista la libertà di espressione debba essere necessariamente limitata per proteggere le diverse sensibilità culturali ed evitare conflitti, considerano la questione al rovescio. È proprio perché viviamo davvero in una società plurale che abbiamo bisogno dell’estensione più ampia possibile della libertà di parola. In una società omogenea nella quale ognuno la pensasse esattamente allo stesso modo, offendere sarebbe quanto meno ingiustificato. Ma nel mondo reale, dove le società sono diversificate, è sia inevitabile sia importante che la gente urti le sensibilità altrui. È inevitabile perché, dove diverse credenze sono profondamente sentite, gli scontri sono ineluttabili. Quasi per definizione, questi scontri esprimono ciò che c’è di vitale nelle società plurali. E quindi dovrebbero essere risolti apertamente, piuttosto che tacitati nel nome del “rispetto” o della “tolleranza”. 
Fatto più significativo: offendere non solo è inevitabile, è anche importante. Ogni tipo di cambiamento o progresso sociale implica l’offesa di qualche sensibilità tenuta altamente in considerazione. Oppure, detta in maniera diversa: “Non puoi dirlo!” è troppo spesso la risposta di coloro che detengono il potere quando sentono la propria autorità messa in discussione. Accettare che certe cose non possono essere dette significa accettare che certe forme di potere non possono essere messe in discussione. Gli esseri umani, come ha detto Rushdie, danno forma al loro futuro discutendo, mettendo in dubbio e dicendo ciò che non si deve dire, non inchinandosi, che sia davanti agli dèi o agli uomini. 
L’idea di recare offesa suggerisce che certe credenze siano così importanti o preziose, per certe persone, che dovrebbero essere protette dall’eventualità che possano essere vilipese, rese una caricatura o anche solo contestate. L’importanza del principio di libertà di espressione risiede proprio nel fatto che rappresenta una costante sfida all’idea che alcune questioni siano fuori discussione e quindi rappresenta una costante sfida all’autorità. La libertà di parola è perciò essenziale non solo per la pratica democratica, ma anche per le aspirazioni di quei gruppi che possono essere esclusi dai processi democratici formali: per coloro la cui voce può essere stata silenziata dal razzismo, ad esempio. Il significato concreto della libertà di espressione, detto in altro modo, non è apprezzato da quelli che detengono il potere, ma da quelli che vogliono metterlo in discussione. E il significato concreto della censura è apprezzato da coloro che non vogliono vedere messa in discussione la propria autorità. Il diritto di sottoporre reciprocamente a critica le credenze fondamentali dell’altro è il caposaldo di una società aperta e diversificata. Una volta che abbandoniamo questo diritto nel nome della “tolleranza” o del “rispetto”, restringiamo la nostra capacità di mettere in discussione coloro che detengono il potere e quindi di sfidare l’ingiustizia. (Kenan MALIK, "Il multiculturalismo e i suoi critici", 2013, Nessun Dogma Editore, 2016)
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