Verso la metà di aprile sono stata fermata dalla polizia in una stazione di Milano. È stata una decisione precisa, personale. Loro stavano lavorando e io gli ho fatto una domanda.
Milano Rogoredo è una stazione molto frequentata da pendolari e studenti, alla periferia sud della città, che spesso scelgo come punto di partenza e di arrivo: ci passa la linea 3 della metropolitana, poche fermate e sei in centro. Comodo. C’è un’edicola, un bar. Dall’altro lato dei binari, i palazzi di Sky.
Il mio treno parte alle cinque. Ho appena fatto il biglietto all’automatico. Alle mie spalle, un poliziotto sta parlando a un uomo. Non puoi stare qui senza biglietto, gli dice, è vietato. Stai aspettando qualcuno? Stai partendo? No? Allora te ne devi andare. L’uomo ha la pelle scura, un cappello con la visiera, una tuta da ginnastica, pulita. Parla poco, a voce bassa. Non riesco a capire se le sue risposte sono evasive o se non conosce bene l’italiano. Il poliziotto alza la voce. Vattene, vattene. Al suo fianco ci sono due militari in tuta mimetica. Lui indica un punto del soffitto, dice, lì sopra ci sono le telecamere, sparisci. L’uomo si allontana, se ne va.
Io mi guardo intorno. La stazione è affollata, il tabellone annuncia una ventina di treni nella prossima ora. Mi avvicino al poliziotto – mantenendo una certa distanza: tra me e lui ci sarà un metro – e gli chiedo cos’è successo.
Buongiorno, dico, posso chiedervi cos’è successo? Cos’aveva fatto quel ragazzo?
Il poliziotto mi dice, lei chi è. (Me lo dice, secco, non è una domanda). (...)
*** Violetta BELLOCCHIO, scrittrice, Vi racconto la brutta aria che tira a Milano, 'internazionale.it'. 10 luglio 2016
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