(...) dimenticare significa perdere traccia del proprio passato, non portarne nessun segno addosso, non udire più le voci di chi ci ha preceduto. Non sopportare le rughe della storia. Dimenticare significa perdere la nostra storia e la storia di tutti quelli come noi. Guardarsi in uno specchio e non vedere nulla dietro la nostra immagine se non un cupo e profondo nero, che assorbe ogni altra cosa, che non sia quella del momento, del presente. Siamo diventati così? Piatti? Senza profondità, sottili lamine di luce su uno specchio. Il nostro è un paese che dimentica troppo in fretta, che rimuove la memoria e che non ha mai saputo fare i conti con il proprio passato: non li ha fatti con il colonialismo, ne con il fascismo o il terrorismo. Da noi il passato in realtà non passa mai veramente, perché è sempre ben nascosto, celato nei meandri del presente. Non abbiamo neppure fatto i conti con l'emigrazione. La nostra emigrazione: dimenticata, relegata in pochi e scarni capitoli dei libri di storia o in qualche museo. Affidata a qualche film dal gusto amaro, ma mai fatta veramente nostra, mai interiorizzata. Siamo sempre pronti a celebrare gli eroi delle guerre, morti per la patria, e mai chi da questa stessa patria è stato costretto a partire. Essere costretti a emigrare è forse peggio del perdere una guerra. È una sconfitta senza onore a cui non-segue una ricostruzione e per di più è una sconfitta dove il nemico siamo noi stessi. Il fallimento di chi governa, pagato da chi è governato, a cui neppure va l'ipocrita gloria di un monumento. Eppure lo sapevamo anche noi l'odore delle stive, l'amaro del partire. Così canta Gianmaria Testa in Ritals (°), soprannome spregiativo che i francesi davano agli immigrati italiani, perché non riuscivano a pronunciare correttamente la r francese.
Lo sapevamo, sì, ma lo abbiamo dimenticato o, peggio, facciamo finta di non ricordarcelo. Si sente dire "rimandiamoli indietro!", "affondiamo i barconi!", "ma come può una madre affrontare un viaggio così con dei bambini!". Incapaci di capire la profondità delle tragedie che si sono lasciati alle spalle. Rimosso ogni ricordo, ci diventa persino difficile capire il dramma di chi prova a raggiungere le nostre coste, risalendo quel mare contromano che noi, invece, con poche centinaia di euro e un visto regolare, possiamo attraversare a nostro piacimento. "Quando la memoria va a raccogliere rami secchi, ritorna con il fascio di legna che preferisce" recita un proverbio africano. La nostra, di memoria, ha portato a casa i rami degli "italiani brava gente", ma ha lasciato a terra quelli di chi cercava un posto al sole in Libia o in Etiopia, magari bombardando con i gas i villaggi di gente inerme. La nostra memoria ha dimenticato l'infamia delle leggi razziali, ha scordato di raccogliere i rami lasciati da chi, un tempo come oggi, è partito da un paese che non gli da da mangiare. I dati Istat del 2013 ci dicono che sono più gli italiani andati all'estero, degli stranieri arrivati in Italia. Oggi si è fatta ancora più corta, quella memoria. Facciamo presto a dimenticare chi muore per una guerra spesso scatenata da noi; o a causa di fame e miseria spesso dovute allo sfruttamento del nord del mondo sul sud; o per colpa di pazzi fondamentalisti che odiano l'Occidente, quell'Occidente non più capace di accogliere umanamente neppure chi fugge dai suoi stessi nemici. Non dimenticare... per non cadere in quella che papa Francesco ha chiamato "globalizzazione dell'indifferenza". L'indifferenza è scegliere di non scegliere, abdicare al proprio pensiero, ridursi a un corpo vuoto di mente e di anima. Non esistere, non vivere, non essere umani.
*** Marco AIME, 1956, antropologo e scrittore, Noi, gli indifferenti con la memoria corta, 'Il Fatto Quotidiano', 22 maggio 2015
LINK articolo integrale qui
In Mixtura, video di Gianmaria Testa, Ritals, qui
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