domenica 30 agosto 2020

#FAVOLE & RACCONTI / Lo strano giardino e l'albero triste (Massimo Ferrario)

C'era una volta un giardino: sembrava il giardino più felice del mondo. 
Ma forse, anche per lo strano accostamento delle piante che lo componevano, era piuttosto fuori dal mondo: come peraltro sempre capita quando si comincia una storia con 'c'era una volta'.

In questo 'strano' giardino c'erano infatti un melo e un arancio: carichi di frutti che aspettavano solo di essere raccolti. 
E c'era un roseto, composto da rose di ogni foggia e colore: mandava profumi estasianti ed era di una bellezza da paradiso. 
E poi c'era un prato disteso a perdita d'occhio: una festa di fiori sgargianti, uno diverso dall'altro. 
Infine c'era un albero gigante: solido, maestoso. Che non produceva alcun frutto. 

Quest'albero era triste e non riusciva a provare neppure un attimo di felicità. 
Invidiava il melo e l'arancio. E il roseto e i fiori. 
Loro avevano un compito: quello di produrre mele e arance e rose e fiori. Ma lui?

All'inizio l'albero triste tentò di rimuovere il problema: continuava a darsi il tono dell'albero più grosso e importante del giardino. 
Ma poi non ce la fece. 
Entrò in depressione e perse vigore: i suoi rami tendevano a indebolirsi, le foglie a ingiallire.

Se ne accorse per primo il melo, che indusse l'albero triste a confidargli cosa gli stava accadendo.
«Caro melo, temo che nessuno mi possa aiutare. Sono un albero come voi, ma non so chi sono. Vorrei essere come te e l'arancio. Io non faccio frutti, eppure esisto. Ma qual è il mio scopo nella vita?».

Il melo, in modo sbrigativo come spesso avviene in questi casi quando si dice di voler aiutare, ma forse si vuole solo parlare a se stessi, tentò di rincuorarlo.
«E' tutto un problema di volontà, concentrazione e impegno. Pensa di fare mele. E farai mele: belle e sugose come le mie».

L'arancio, che aveva ascoltato la confessione dell'albero triste, rinforzò il consiglio del melo. 
«Magari non ti va di fare mele. In questo caso, guarda me: concentrati e pensa di fare arance. Come vedi io è una vita che le regalo ai bambini che ci vengono a trovare: se le divorano subito fino a fare indigestione.»

Anche il roseto non trattenne il suo consiglio.
«Non c'è bisogno di produrre per forza frutti. Le mie rose sono imbattibili: servono ad allietare la vista e a profumare la vita di chi le guarda. Devi solo pensare di essere un roseto. Se ci crederai davvero, diventerai un roseto».

L'albero triste provò a concentrarsi: prima volle essere un melo, poi un arancio e infine un roseto. 
Ma non successe nulla. 
E lui era sempre più sconsolato e depresso.

Una notte un gufo si posò su un ramo dell'albero triste. 
Non poté non accorgersi: l'albero, per tutta la notte, non smetteva di lamentarsi. 
Silenziosamente. 
I rami vibravano, nonostante non ci fosse un filo di vento, e persino le foglie, a chi aveva cuore per sentire, trasmettevano una sofferenza sottile ma intensa, quasi disperata.

Il gufo non voleva essere invadente, ma alla fine, alle prime luci del mattino, si decise a dire la sua.
«Caro albero, non ho mai incontrato una pianta che soffrisse tanto: tutto il tuo corpo mi dice che sei pervaso da un dolore insostenibile. Ti posso aiutare?».

L'albero triste si confidò.
E il gufo provò a rassicurarlo, comunicandogli tutta la sua empatia. 
«Credo di capire ciò che provi. E' un disagio diffuso: per quanto ne so, anche molti umani ne soffrono. Purtroppo non ho la soluzione magica e ciò che posso dirti può suonarti astratto, retorico, soltanto teorico. Però, ti assicuro, sono 'belle parole' finché non si riesce a tradurle in pratica: allora smettono di essere solo 'belle' e diventano anche 'buone', perché se ne scopre la concretezza e si ritrova la pace e l'identità. Ci sono passato anch'io: non è stato immediato, ma alla fine ho avuto la fortuna di farcela. Invidiavo l'aquila: i suoi artigli, la sua imponenza, il suo volo da re degli uccelli, che si perde altro nel cielo. Poi, una notte, non so come, per una strana magia fortunata, mentre mi concentravo in me stesso cercando di capire chi sono e abbandonavo l'immagine ideale dell'aquila, 'mi è arrivata' la voce interiore. Ciò che tutti noi, vegetali e animali, possiamo sentire, se solo ci raccogliamo in noi stessi. Prova a calarti nell'anima della pianta che sei: non inseguire il melo, l'arancio, le rose. Loro sono rumore, non sono la tua voce interiore».

L'albero triste decise che ci avrebbe provato. 
Ma come ascoltare la voce interiore? Dove stava? Quando e come avrebbe parlato? 
'Prova a calarti nell'anima della pianta che sei', dice il gufo. Già, ma come si fa? Ci vorrebbero delle istruzioni.

Trascorsero giorni.
Poi, all'improvviso, arrivò una notte tempestosa come mai era accaduto. 
Lampi, tuoni, fulmini. Vento e pioggia sferzarono il giardino per ore, con una violenza cui piante e fiori mai erano stati sottoposti. 

L'albero triste, nonostante la sua maestosità, si sentì fragile: ebbe paura. Una paura che però non rifiutò, ma accettò di trattenere in ogni sua fibra: come fosse un tesoro da non disperdere. 
E allora si raccolse tutto in se stesso: sentì le radici che lo ancoravano al terreno, sentì il grande tronco che lo innalzava al cielo, sentì ogni ramo e foglia che venivano frustati dalla tempesta che pareva non finire mai.

Poi, quando tutto si quietò, poche ore prima dell'alba, e il cielo si rifece stellato, l'albero triste, finalmente e un po' misteriosamente, avvertì una voce, chiara e netta, che gli veniva dal cuore della terra in cui affondavano le sue radici e passava per l'anima del grande fusto fino all'ultima fogliolina lassù in alto.

La voce era limpida, pulita, cristallina.
«Volevi ascoltare la mia voce? Eccola, caro il mio albero. Tu non sei un melo: lui dà frutti, tu no. Tu non sei un arancio: lui dà frutti, tu no. Tu non sei un roseto: lui fiorisce, tu no. Tu devi solo prendere atto di essere ciò che sei: una sequoia. Sì: tu sei una Sequoia. Con la maiuscola. Perché tutti, quando siamo individui e non solo specie cui apparteniamo, abbiamo la maiuscola. Tu, come sequoia, sei un albero grande, imponente, solido, maestoso. Il tuo destino è crescere alto e svettare nel cielo. Sì, tu non fai frutti. Offri riparo agli uccelli, ombra a chi viaggia, bellezza al paesaggio. Non sei l'unico albero che fa questo, ma tu lo fai grazie alla tua natura di sequoia. Una natura unica: che nessuno può rubarti. Se la rispetti, rispetterai te stesso. E avrai il tuo posto nella vita. Ricorda: non hai da imitare nessuno. Hai solo da essere la Sequoia che sei. La felicità, di vegetali e animali, è tutta qui: nel riconoscersi nella nostra specifica e originale natura. Che è il nostro destino.».

Il primo chiarore dell'alba stava bucando la notte. 
La sequoia si guardò in giro. 
Il giardino era una desolazione: frutti caduti a terra, ovunque rami spezzati, le rose devastate dalla tempesta, i fiori strappati, il prato sottosopra.
Solo lui, il Grande Albero, sembrava intatto: appena un po' acciaccato per la furia del vento della notte, ma diritto, sempre massiccio, imponente. 

In quel momento la sequoia capì cos'era una sequoia e si riconobbe per ciò che era. 
Per la prima volta l'albero, non più triste, si sentì sicuro di sé e una nuova forza, pacifica ma trascinante, percorse come una linfa nuova tutto il suo corpo. 

E quando il giardino tornò a essere rigoglioso e bello come prima, l'albero, diventato una sequoia e finalmente orgoglioso di essere Sequoia, fu rispettato e ammirato da tutti. 

Allora quello 'strano' giardino non 'sembrava' più felice, ma 'fu' felice. 
Perché tutto era al posto suo.

*** Massimo Ferrario, Lo strano giardino e l'albero triste, per Mixtura - Libera riscrittura originale di un testo diffuso in internet.


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