Se si esclude Esiodo e forse qualche altro autore minore, è difficile trovare nelle letterature classiche un elogio, quale che sia, del lavoro manuale. Gli antichi però conoscevano e, quando potevano, coltivavano con passione un altro tipo di attività, l’otium, che, come è noto, non era l’ozio come lo intendiamo oggi, ma qualsiasi tipo di attività, intellettuale e spirituale ma anche fisica, che non avesse altro fine che la paideia, la «coltura», la coltivazione dell’essere umano. Nell’ambito dell’ozio anche la fatica, se e quando fosse necessaria, perdeva i caratteri della sofferenza, della pena necessaria e diventava poiesis, processo creativo umano.
Come ho avuto modo di accennare, la valorizzazione del lavoro è stata opera del cristianesimo: l’ora et labora, considerato la sintesi della regola benedettina, segna già un livello assai complesso dell’elaborazione di una nuova idea del lavoro. Affiancato alla preghiera (e nella Regola anche alla lettura e alla meditazione) il lavoro non è più l’attività tormentosa e umiliante riservata agli schiavi; ma non è neppure la punizione divina inflitta ad Adamo per la sua trasgressione: il lavoro diviene strumento di elevazione spirituale, uno dei percorsi possibili verso la salvezza dell’anima, verso la santità. Ma nel quadro della Regola benedettina il lavoro diviene anche un piano di costruzione della socialità dentro al monastero, ma anche fuori, nel mondo, per la cooperazione che sollecita, per gli scambi che rende possibili, per la circolazione di notizie e di conoscenze di cui si alimenta. Producendo fuori del mercato, per il consumo proprio e ancor di più per quello altrui, i monaci medievali sono tra i rari gruppi umani che conobbero il lavoro non alienato: il valore prodotto dal loro lavoro era reimpiegato secondo scelte autonome e condivise. È forse questo un terreno dove otium e labor potrebbero fruttuosamente essere coniugati?
*** Amalia SIGNORELLI, antropologa, La vita al tempo della crisi, Einaudi, 2016
John_William_Waterhouse, Otium, 1880
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