La nostra è un’epoca radicalmente differente da ogni civiltà del passato, ma non più barbara di altre. E non da oggi, ma da sempre, la psicoanalisi è un ‘luogo di resistenza’, irriverente di per sé rispetto a quel feticcio chiamato coscienza e soprattutto critica di ogni strategia repressiva - vecchia e nuova. Noi non aneliamo ad "aggiustare" gli individui, li aiutiamo piuttosto a riconoscere e a difendere la loro singolarità... Quanto alle anime belle, sono così convinte di esserlo che non vengono in analisi.
[D: Magari solo perché sono altre le cure egemoni: quelle che promettono una rapida "guarigione". Secondo lei, il trattamento analitico non è in piena crisi?]
Secondo me, no. Tanto è vero che quando mando un paziente a un collega, mi risponde puntualmente che non ha posto. Questo della crisi, è un tema che torna sempre e in fondo rappresenta il senso della psicoanalisi: un lavoro che documenta la fragilità dell’individuo, la sua insufficienza, la sua dipendenza dall’inconscio. Un lavoro che mette in crisi.
[D: Quali sono le problematiche più comuni che pongono i pazienti?]
Le ferite narcisistiche sono frequentissime. Sono la causa e l’effetto di una intolleranza dell’umiliazione, della vergogna, dell’insuccesso. Probabilmente un riflesso della competitività esasperata dei nostri tempi, comunque situazioni diffuse nella vita di tanti. Il rapporto tra frustrazione e insuccesso è inoltre circolare: non ottenere un risultato spesso impossibile deprime e questa condizione garantisce il fallimento.
[D: Ma com’è questo Narciso frustrato?]
È solo e disperato. Ha reazioni aggressive verso gli altri e tende all’isolamento. È molto più attento a se stesso che alla meta ideale del suo desiderio, e questo favorisce l’insuccesso, in più con ricadute disastrose sulla vita affettiva e anche erotica.
[D: Una volta dall’analista si parlava delle più pasticciate storie sentimentali. Oggi prevalgono le frustrazioni professionali... Siamo alla clinica dell’antiamore come difesa dall’angoscia, per dirla con Recalcati?]
Guai però a fermarsi alle prime battute dell’analisi. I sintomi sono come un biglietto da visita generico: poi ognuno è diverso, e semmai dovrà scoprire la sua nevrosi, se vuole vivere meglio... Certe reazioni narcisistiche esprimono spesso il timore di essere - e di essere stati - irrilevanti: un timore grave che in analisi trova sollievo perché in quella stanza finalmente si sente di essere ascoltati davvero. Solo allora è possibile aprire il vaso di Pandora dell’inconscio e poco alla volta svelare le ragioni profonde del malessere.
[D: In che modo?]
Riformulando tutta la propria storia: un’avventura che potrà essere dolorosa, ma anche molto gioiosa. Bisogna però averne la disponibilità, altrimenti è inutile affrontare una cosa impegnativa come l’analisi. Molte persone cercano di cancellare l’infelicità eliminando un disturbo, e questo è ovvio e del tutto lecito. È meno frequente che si voglia diventare se stessi, trovando un modo di vivere più autentico. I nostri sono pazienti che comunque vivono sofferenze laceranti: alla fine ciò che importa è unicamente il loro dolore.
[D: Crede che la strumentazione degli analisti sia adeguata?]
Spero proprio di no. Un analista che si sentisse in possesso di strumenti adeguati farebbe meglio a cambiare mestiere. Il problema dell’analista è semmai quello di saper essere inadeguato come il paziente, di sentire sulla propria pelle cosa vuol dire soffrire in quel modo lì... Solo se si va a fondo assieme, si può tornare a galla. E migliori - sempre che l’analisi non fallisca.
[D: Ci sono stati fallimenti terapeutici, nella sua esperienza?]
Sì, naturalmente. Ho avuto pazienti che non miglioravano - penso soprattutto perché non riuscivo a capire, assieme a loro, cosa diavolo mi stavano dicendo.
[D: Il vostro metodo di cura si basa ancora sulle associazioni libere: come lo definirebbe?]
È il nostro solo metodo, però per fortuna è avvincente e fruttuoso... Definirlo? È il lasciarsi prendere dal gusto di vedere dove va il pensiero se non si esercita il giudizio, e poi pensarci su. Una sfida per la ragione, che ne esce ridimensionata e rafforzata.
[D: La lentezza del processo analitico è compatibile coni tempi serratissimi che viviamo?]
Sì e no. Sì, nella pratica: i pazienti scoprono ben presto che è possibile. No, perché l’atemporalità dell’inconscio, quella sua mancanza della dimensione tempo, contrasta con il nostro stile di vita frenetico. Ma il processo analitico deve essere così, lento e intenso, altrimenti il rischio per certi pazienti è vivere in un eterno transfert. Intendo quelli che continuano a sospirare "ah, il mio analista...", e magari saltabeccano da una terapia all’altra. Lì certamente c’è qualcosa che è andato storto, perché è l’analisi che serve per la vita, non il contrario: non la vita per l’analisi.
[D: Ma qual è il valore aggiunto della vostra cura?]
L’onestà intellettuale con se stessi e con gli altri, io lo considero un valore aggiunto fondamentale. Se non si ‘aggiunge’ alle caratteristiche della persona, l’analisi è andata male. Certo, ci si può chiedere seriamente se questo sia sempre un vantaggio.
*** Antonio Alberto SEMI, psicoanalista, didatta della Società Psicoanalitica italiana, intervistato da Luciana Sica, ‘la Repubblica’, 15 settembre 2010.
John William WATERHOUSE, 1849-1917
artista britannico
Eco e Narciso, 1903
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