lunedì 24 ottobre 2016

#LIBRI PIACIUTI / "Orfani bianchi", di Antonio Manzini (recensione di M. Ferrario)

Antonio MANZINI, "Orfani bianchi"
Chiarelettere, 2016
pagine 201, € 16,00, ebook € 9,99

Un sano colpo allo stomaco
Poteva rappresentare un rischio lasciare in sospeso, anche solo per un giro, la serie fortunata delle vicende del vicequestore Rocco Schiavone e buttarsi in campo aperto, a inseguire una storia senza i confini rassicuranti del genere poliziesco. 
Ma il rischio è stato brillantemente superato. Segno che l'autore, Antonio Manzini, è scrittore a pieno titolo: che sa costruire storie convincenti e affascinanti anche al di là dei generi e che i generi, quelli polizieschi in particolare, sono schemi non solo artificiosi, ma anche pericolosi, perché possono confinare e irrigidire il talento narrativo, quando c'è, entro le strettoie un po' troppo rigide di un campo definito, dalle regole risapute e dalla struttura convenzionale.

Scrive Antonio Manzini in apertura di questo suo 'Orfani bianchi': “Volevo misurarmi con un personaggio femminile. Una donna unica con una vita difficile che per trovare un angolo di serenità è pronta a sacrifici immensi. Mia nonna stava morendo, io guardavo Maria che le faceva compagnia e veniva da un paesino della Romania. E mi domandavo: quanto costa rinunciare alla propria famiglia per badare a quella degli altri?”.

Il romanzo è un colpo allo stomaco. E lo è tanto più in quanto lo stile che accompagna la narrazione, sempre chiaro e invitante, procede asciutto, serrato, spesso aspro e duro solo per la semplice giustapposizione 'oggettiva' dei fatti raccontati: ed è per questo che, senza cedimenti ad alcuna retorica stucchevole, è capace di commuovere anche le 'pance' più difese e riottose. 

La vicenda cattura, da subito. Non si può non provare empatia per Mirta, la badante moldava che ne è la protagonista: una delle tante, dimenticate, giovani donne costrette ad abbandonare in patria genitori anziani e figli piccoli, venendo meno al loro ruolo di cura di figlie e di madri, per emigrare da noi e accudire, in questa parte opulenta di mondo, quei nostri vecchi che, per varie ragioni, noi abbiamo deciso di 'scaricare' nelle loro mani. 
Il tentativo di riscatto di questa donna, la sua vita quotidiana di sofferenza, disperata e dolente, il suo sfruttamento, sempre colorato di un razzismo anche impudentemente sbattuto in faccia, non possono lasciare indifferenti. 

Certo, nessun libro è in grado di cambiare, di per sé, una visione della vita: e del resto nessun autore può darsi un obiettivo tanto assurdamente onnipotente. 
Men che meno possono vacillare, solo per la semplice lettura di questo romanzo, le nostre convinzioni e abitudini, dure e ben radicate, anche perché funzionali al tipo di struttura profonda che abbiamo dato, volenti o nolenti, alla società in cui viviamo. 
Eppure, qualche pensiero 'sanamente' disturbante, e dunque fastidioso e controcorrente, la vicenda di Mirta, nel suo svolgersi grigio e disperato, non può non stimolarlo. Ed è questo che costituisce il vero valore aggiunto del romanzo: lo si paga con una partecipazione, sofferta e mai rilassata, alla storia dolorosa e inquietante di questa madre che ha dovuto abbandonare in patria il figlio ragazzino, disposta a qualunque sacrificio pur di dargli, finalmente, un futuro di benessere economico, autonomia, dignità. Ma è un prezzo - piccolo per chi legge, in confronto con chi vive davvero nella realtà il dramma dell'esclusione e dell'indigenza -, che vale la pena pagare: perché la vicenda ci ricorda cose che abbiamo dimenticato, o addirittura non riusciamo a vedere, come sempre accade quando è più comodo accantonare ciò che è bene non vedere. 
Anche per questo, almeno per quanto mi riguarda, sento il piacere di dover dire grazie ad Antonio Manzini per le tre ore intense, anche se per nulla 'spensierate', che il suo romanzo mi ha regalato.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura

«
Olivia se ne sta lì. Se la guardi sembra stia mangiando qualcosa, come una mucca, rumina. Ma non mangia. Con la lingua giocherella col ponte che le si è staccato. Un ponte è un pezzo di plastica che tiene tre denti sull’arcata superiore. Dovrebbe tornare dal dentista, solo che il figlio se ne frega. Io, caro Ilie, ho la sensazione che Pierpaolo vede la mamma come una vecchia auto da riparare e gli sembra inutile spenderci soldi. Tanto non serve più. Sarà così? È una cosa che mi fa tristezza, sai? Vecchia o nuova che sia, per me un’auto è sempre un’auto finché cammina, e va riparata tanto quanto una macchina nuova. Ma qui in pochi la pensano così. Almeno, per quello che posso, le faccio da mangiare le cose che le piacciono. Ma masticare bene non può. Lo fa da una sola parte. 
Quando ce ne andiamo, Pina e il marito salutano sempre così: 
«Arrivederci signora Olivia!». A me neanche mi guardano. Vedi Ilie? 
Questa cosa ci deve far riflettere. (Antonio Manzini, "Orfani bianchi", Chiarelettere, 2016)

Mirta continuava a masticare la focaccia e a guardare fuori dal finestrino. Sandra e Natasha, le due ucraine, se ne stavano sedute sulla soglia del portone del condominio. Fumavano e parlavano fitto. 
Un’amica, ecco la mancanza più dolorosa, dopo quella del figlio, che spesso la notte la faceva lacrimare. Qualcuna con cui guardarsi negli occhi, magari ricordare i posti familiari, le sciocchezze fatte assieme, gli uomini che osservavano sussurrandosi parole ridicole nelle orecchie. 
«Oh, mi senti?» 
Mirta si girò di scatto verso Wendy. «Scusa?» 
«Un marito ce l’hai?» Mirta fece no con la testa. 
«Ma hai un figlio, no?» 
«Ilie.» 
«E che l’hai fatto da sola?» 
«No. Si chiamava Adrian.» 
«È morto?» 
«Per me sì.» 
Wendy la guardò senza capire. «È vivo o è morto?» 
«Non lo so. Dopo che è nato Ilie se n’è andato e non l’ho più visto. Qualcuno mi ha detto che è a Mosca. Qualcuno in Germania. Non lo so. Fatto sta che non c’è.» 
«E ti manca?» 
«No.» 
«Come fai a stare senza uomo?» 
Mirta alzò le spalle. «Come fai a stare senza figlio, dovresti chiedermi. E io non saprei risponderti.» 
«Siete tutti così tristi in Romania?» 
«Non sono romena. Sono moldava.» 
«Siete tutti così tristi in Moldavia?» 
«E siete tutti così impiccioni in Perù?» 
«Colombia. Io vengo dalla Colombia!» 
Tornarono a guardare fuori, ognuna persa nei propri pensieri, fino a quando Pippo Bertuccelli bussò sui finestrini del furgoncino gridando: «Andare! Si riprende, signore belle!». (Antonio Manzini, "Orfani bianchi", Chiarelettere, 2016)

L’uomo sorrise. Girò i tacchi e sparì. Mirta si mise le mani nei capelli. Aveva voglia di piangere. Fino a quando sarebbe stata colpevole per nascita? Fino a quando avrebbe dovuto sentire i piedi della gente sulla faccia senza poterseli togliere di dosso? Come se non avesse un orgoglio. La fame te lo toglie, l’orgoglio. E ti toglie l’amor proprio, e la dignità. Come si fa a sopportare di essere colpevole di cose che non hai mai pensato? Solo perché altri quelle cose le fanno. Tutti i giorni. E quindi per riflesso le fai anche tu? Sarebbe mai arrivato il giorno in cui sarebbe stata considerata né più né meno che una donna e giudicata per le sue azioni? Fino a quando ce l’avrebbe fatta? (Antonio Manzini, "Orfani bianchi", Chiarelettere, 2016)
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In Mixtura altri 3 contributi (e relative mie recensioni a 3 libri) di Antonio Manzini qui
I libri recensiti sono: 
* 7-7-2007, Sellerio, 2016
* Sull'orlo del precipizio, Sellerio, 2015
* Era di maggio, Sellerio, 2015

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