Qualunque autorità che, eletta da un insieme di individui, sia perciò chiamata a interpretarne il volere nella sua attività di direzione o di governo, deve goderne, come si suoi dire, la fiducia. Nessuno, infatti, può essere legato a tal punto dal mandato ricevuto dai suoi elettori, da potersi considerare come una sorta di esecutore meccanico dei loro ordini. Le situazioni che si debbono fronteggiare sono sempre nuove, e guai a quei dirigenti che innanzi ad ogni novità dovessero tornare a chiedere il parere di coloro che li hanno eletti al posto di comando. Per questo i cosiddetti «mandati imperativi» sono rari, e possono aver senso, per esempio, per i delegati a un congresso, e in ordine a certi problemi già ben noti e discussi dai mandanti: non mai per un'autorità che debba esercitare una funzione direttiva di una certa durata. Diffidenza verso l'autorità significa, invero, autorità debole, autorità di scarsa durata: è il tipo di autorità verso cui tende la psicologia dell'anarchismo, secondo cui tutte le cariche dovrebbero essere revocabili ad nutum, al solo cenno di coloro che le hanno assegnate.
In questo senso, ogni stabile autorità democratica ha bisogno di una certa «fiducia», corrispondente all'ambito di potere autonomo che l'elettore lascia al suo eletto, per tutta quella pane di attività che non può precisamente prevedere e programmare e per la quale si rimette alla sua capacità e lealtà. Il «governo forte», in questo senso, è il governo che «gode fiducia», e le democrazie meglio organizzate sono quelle in cui si dà largo credito all'autorità. una volta istituita, in modo da permetterle di fare largamente la sua prova senza la continua ossessione di dover rendere conto giorno per giorno del suo operato. La diffidenza dal basso crea le autorità deboli e discontinue, e queste screditano la democrazia e ne preparano la rovina. La gente meno esperta comincia a sognare il dittatore, che abbia la possibilità di agire senza essere criticato e fermato ad ogni istante. Ma, proprio affinché per altro verso non nasca e non si sviluppi una psicologia tendenzialmente dittatoriale, è necessario che l'autorità, la quale deve godere della fiducia, non accampi troppo spesso il diritto a questa fiducia. La cosa vale per un governo rispetto al parlamento, cosi come per qualsiasi comitato direttivo o amministrativo o esecutivo, che si trovi a dover rendere conto, più o meno spesso, del suo operato, o alla assemblea degli associati o a un loro organo rappresentativo. Se in un dibattito il ministro, o il membro del comitato esecutivo, la cui attività o la cui intenzione viene discussa, ha la sensazione che, effettivamente, tale discussione implichi la possibilità di un giudizio negativo su tutto l'insieme della sua azione direttiva, allora egli ha il diritto (e in certi casi addirittura il dovere) di «porre la questione di fiducia» su quel punto, cioè di chiedere che, esprimendo il suo voto sulla questione discussa, l'assemblea sappia che egli interpreterà il suo voto anche come giudizio circa la sua attività in generale, e quindi si riterrà costretto a dimettersi dalla carica, qualora la tesi da lui difesa resti in minoranza.
Se però, tutte le volte che un'assemblea discute qualche punto della politica dei suoi dirigenti, questi pongono la questione di fiducia sul voto che può concludere la discussione, allora è chiaro che la stessa capacità di controllo e di consiglio, che dev'essere riservata all'assemblea, viene fortemente diminuita, se non addirittura annullata.
*** Guido CALOGERO, 1904-1986, filosofo, saggista, politico, Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo. Edizione Corriere della Sera, 2012 (prima Edizioni dell'Ateneo, 1968 e Edizioni Diabasis, 2001)
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