I Pueblo si sono rifiutati per lungo tempo di adottare l'aratro al posto del bastone che usavano per piantare i semi, sostenendo che l'aratro squarciava in modo impietoso il ventre della Madre Terra. E se proprio non potevano evitare di spaccare la terra, ricorrevano subito dopo a cerimonie di espiazione e di 'risanamento'. Ancora dopo il 1930 un uomo fu richiamato dai campi dall'anziano del villaggio e frustato per avere arato la terra con un trattore.
Secondo il modo di pensare degli indiani non si deve imprimere alla terra le 'stigmate' dell'uomo, come facciamo invece noi con tanta leggerezza, ma lasciare meno tracce possibili. Per questa ragione le case dei villaggi indiani venivano costruite di solito con materiali del posto, tanto che ancora oggi, viste dal lontano, sembrano formazioni naturali del terreno.
Ritroviamo lo stesso motivo nell'insegnamento che una donna dei Piedineri impartisce al figlio: «Un uomo non dovrebbe mai camminare con tale impeto da lasciare tracce così profonde che il vento non possa cancellare».
In alcuni villaggi pueblo, in primavera, si toglievano i ferri ai cavalli e i tacchi alle scarpe, per non ferire la terra (gravida).
Un etnologo, Barre Toelken, domandò a un indiano pueblo: «Vuoi dire che se batto la terra con il mio tacco, tutto sarà scompigliato e non crescerà più nulla?»
L'indiano rispose: «No, non sono sicuro che accadrebbe questo. Mia tu in ogni modo avresti dimostrato che razza d'uomo sei».
*** Rudolf KAISER, 1927, tedesco, docente di anglistica all’università di Hilesheim, studioso dei nativi del Nordamerica, Dio dorme nella pietra, 1990, Red edizioni, Como, 1992.
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