Raccolse le gambe e si diede una grattata tra le dita impolverate dei piedi. “Mi sono detto: ‘Cos’è che ti tormenta? Le scopate?’. E mi sono detto: ‘No, il peccato.’ Allora mi sono detto: ‘Com’è che quando uno dovrebbe essere chiuso come un culo d’asino di fronte al peccato, e pieno di Cristo fino ai capelli, com’è che proprio in quel momento gli viene di sbottonarsi la patta?’.” Parlava battendo ritmicamente due dita sul palmo della mano, come per poggiarvi le parole una accanto all’altra. “Mi sono detto: ‘Forse non è peccato. Forse è solo com’è fatta la gente. Forse ci siamo presi tanto a frustate senza nessun motivo’. E m’è venuto di pensare a quelle suore che si frustavano colle corde piombate. E ho pensato che magari a loro gli piaceva farsi male, e che a me mi piaceva farmi male. Be’, quando m’è venuta questa pensata ero seduto sotto un albero, e mi sono addormentato. Poi s’è fatta notte, e quando mi sono svegliato era buio. C’era un coyote che ululava lì vicino. Senza manco accorgermene mi sono messo a gridare: ‘Al diavolo tutto quanto! Non c’è nessun peccato e nessuna virtù. C’è solo quello che la gente fa. È tutto parte della stessa cosa. E certe cose che la gente fa sono belle, e invece altre non sono belle, ma questo è il massimo che qualsiasi uomo ha il diritto di dire’.” Tacque e alzò lo sguardo dal palmo della mano, dove aveva poggiato le parole.
Joad lo guardava sorridendo, ma i suoi occhi erano attenti e interessati. “L’hai pensata proprio bene,” disse. “Mette a posto tutto quanto.”
*** John STEINBECK, 1902-1968, scrittore statunitense, premio Nobel per la letteratura nel 1962, Furore, 1939, Bompiani, 2013, nuova traduzione di Sergio Claudio Perroni.
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