sabato 17 settembre 2016

#QUARTAdiCOPERTINA / "Il presente in poche parole", di Marino Niola

Marino NIOLA, "Il presente in poche parole"
Bompiani, 2016
pagine 177, € 12,00, ebook € 10,20

Testo di presentazione dell'Editore - Citazioni scelte da Mixtura

Quando i tempi stanno per cambiare, cambiano anche le parole. Da che mondo è mondo le grandi trasformazioni hanno sempre un’eco anticipatrice nella lingua, che prova a misurarsi con la transizione inventando vocaboli nuovi o cambiando significato a quelli di sempre. Nel tentativo di dare suono e senso al nuovo che avanza.
Dopo Miti d’oggi, Marino Niola torna a occuparsi di sogni e incubi, passioni e ossessioni del nostro tempo. Un presente sempre più inafferrabile, popolato da personaggi bizzarri, fatto di grandi contraddizioni, tendenze effimere e scelte di campo complesse. In questo panorama spesso ci troviamo disorientati, a volte prigionieri di nuovi riti, feticci o mode. Assistiamo infatti al ritorno imperioso di leggende metropolitane, al diffondersi di supporti digitali che ricordano al posto nostro ogni istante della vita, alle leggi ferree delle tribù di consumatori autarchici o alle diete che diventano stili di vita. 
Con lo sguardo dell’osservatore critico e la leggerezza del fine narratore, Niola restituisce al lettore un’immagine del presente più nitida e chiara. Riesce a farlo grazie a istantanee, ritratti e parole chiave che con semplicità illuminano anche i coni d’ombra del presente.


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Così il 31% dei nostri connazionali vive a casa con mammà. E non solo i soliti bamboccioni. Ma anche divorziati, separati, esodati, cassintegrati, licenziati. Insomma le vittime della crisi che tornano a leccarsi le ferite in famiglia. 
Che si rivela ancora una volta come l’unico welfare aperto sette giorni su sette h24. E che, per di più, eroga una doppia prestazione, economica e affettiva, assicurativa e rassicurativa. Anche perché i genitori di crisi ne hanno già viste tante. E nessuno come loro è in grado di indorare la pillola, di aiutare a vedere il bicchiere mezzo pieno. E, soprattutto, a fare di necessità virtù. (Marino Niola, "Il presente in poche parole", Bompiani, 2016)

Gli studi parlano chiaro. Qualcosa è cambiato. Dentro e fuori di noi. Sembra proprio che l’algoritmo mentale che presiede ai conti della spesa stia diventando sempre più evoluto e scaltro. Ai tempi delle vacche grasse era il desiderio a creare il bisogno, “a nostra insaputa”. Facendo apparire ogni cosa esposta in vetrina indispensabile. Anche quando in realtà sapevamo benissimo che era solo uno sfizio, un surplus, un bene consolatorio. Adesso invece è il bisogno a creare il desiderio e soprattutto ad autorizzare la spesa. Perché nel frattempo il processore istintuale, che ciascuno di noi ha dentro di sé, ha fatto una sorta di aggiornamento spingendoci a un continuo ricalcolo del rapporto costi-benefici. Non a caso i tempi trascorsi davanti allo scaffale si allungano sempre di più. Con il risultato che le nostre compere sono diventate meditate, oculate, strategiche. E prima di tirare fuori la carta di credito contiamo fino a dieci. Un’autentica spending review che riguarda non solo il superfluo, come snack o caffè al bar. Ma anche yogurt, detersivi e altri prodotti per la casa. Lo dice l’Osservatorio Fedeltà dell’Università di Parma. (Marino Niola, "Il presente in poche parole", Bompiani, 2016)

... se è vero come dice Edgar Morin, che la rete promuove una nuova coscienza planetaria, è anche vero che almeno per ora la quantità d’informazione disponibile online è inversamente proporzionale alla qualità. E rischia di generare un nichilismo culturale che rende difficile distinguere il vero dal falso. 
Come ha mostrato il sociologo francese Gérald Bronner, la nostra sta diventando la democrazia della credulità. Perché dove la gerarchia dei saperi frana e il principio di autorevolezza si polverizza, spopolano le spiegazioni semplici e soprattutto monocausali di una realtà che è invece sempre più complessa e sfaccettata come quella contemporanea. Soluzioni consolatorie che ci danno la sensazione rassicurante di capirci qualcosa, di saperla lunga, di non farci infinocchiare dalle versioni ufficiali dei fatti. Che si tratti di OGM, vaccini, sicurezza alimentare, biologico, coloranti, pesticidi, il minimo comune denominatore è una sindrome da complotto che provoca una sfiducia crescente verso tutte le autorità, scientifiche o politiche. Siamo sempre più bipolari. Per un verso malfidenti verso i vari esperti, ricercatori, professori, giornalisti o studiosi, e per l’altro pronti a prestar fede a tutte le voci che corrono in rete. Così il tessuto collettivo dell’attendibilità e della credibilità appare sempre più compromesso. Al punto che in Francia, dove la scienza è una fede e la ragione una religione, secondo uno studio recente, il 43% delle persone pensa che la ricerca comporti più rischi che benefici. E da un sondaggio Gallup di quest’anno emerge che la fiducia dei cittadini statunitensi nelle istituzioni è passata da un imponente 80% degli anni sessanta a un allarmante 10% di ora. (Marino Niola, "Il presente in poche parole", Bompiani, 2016)

Se nel 1977 i prodotti certificati erano duemila, oggi sono 135.000. E ogni anno vengono immessi sul mercato ottomila nuovi alimenti a marchio kasher. E adesso le aziende convenzionali si mettono in coda per fare analizzare i loro prodotti dalle autorità religiose. Le sole che abbiano il potere di certificare che una pasta, un caffè, un filetto, una scatoletta di tonno, una bottiglia di vino sono prodotti come Dio comanda. Lo hanno già fatto marchi italiani come Barilla, Ferrarelle, Olio Sasso, De Cecco, Lazzaroni, Bonomelli e tanti altri. La prima al mondo fu la Procter & Gamble, che nel lontano 1911 ottenne di poter pubblicizzare come kasher il Crisco, un grasso vegetale per pasticceria. E adesso organizzazioni come la potentissima Orthodox Union, la più grande holding di certificazione ebraica del pianeta, dispensa il logo OU come una benedizione. Impartita da cinquecento rabbini che monitorano quattrocentomila alimenti e seimila fabbriche operanti in ottanta paesi. Nella sola sede centrale di Broadway, è al lavoro un imponente board rabbinico coadiuvato da una schiera di tecnologi alimentari e analisti del sapore, in uno scenario da film di Woody Allen. 
Siamo in pieno cortocircuito tra religione e alimentazione, tra salute del corpo e salvezza dell’anima. Tra fiducia e fede. Al punto che crediamo più nell’autorità religiosa che nell’authority alimentare. Finendo per caricare la religione di funzioni improprie. Come la tracciabilità dei nostri alimenti. Garantita da un’autorità percepita come superiore, al di sopra delle parti, al riparo da conflitti di interesse. E così chiediamo ai rappresentanti dell’Altissimo di proteggerci dal male. Lo aveva capito in anticipo la Hebrew National che nel 1960, per lanciare il suo celebre hot dog, scelse lo slogan “Rendiamo conto a un’autorità superiore”. Come dire, il nostro è un panino da padreterno. Parola di Dio. (Marino Niola, "Il presente in poche parole", Bompiani, 2016)
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