Scrive Antonio Angioni, top manager, esperto di talent management e change management, A proposito di welfare, 'caosmanagement', 98, giugno 2015
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[Il tema del welfare aziendale] non è, infatti, un tema nuovo sotto il profilo gestionale ma, volendo limitare le riflessioni al perimetro italiano, occorre distinguere fra le prime sperimentazioni locali e quelle introdotte da filiali italiane di multinazionali. Tra le sperimentazioni realizzate in Italia nella prima metà del secolo scorso, occorre distinguere poi fra quelle che si ispiravano ad un modello “town community” e quelle invece che rispondevano ad un “modello integrativo”.
Sono da scrivere alla town community le iniziative promosse da Adriano Olivetti ad Ivrea, da M. Ferrero ad Alba, da R.Piaggio a Pontedera, da G. Marzotto a Valdagno, da G.Buitoni a Perugia, da L.Zanussi a Pordenone ed in part ma solo in parte, come sarà più chiaro in seguito, da G.Agnelli a Torino. Tutte esperienze riconducibili a contesti nei quali le cittadine finivano per diventare parte integrante dell'impresa (case, asili, scuole, colonie estive, trasporti, assistenza medica, supporti allo studio), gestiti da imprenditori con una vision che non si limitava solo al business ma che vedeva nell'assunzione di certi oneri sociali un completamento dello stesso.
Nel medesimo periodo venivano assunte iniziative analoghe da altri gruppi industriali, che per lo sviluppo nel territorio non si identificarono solo con il contesto nel quale avevano preso le mosse ma che avevano acquisito dimensioni che andavano oltre; si pensi alla Pirelli, alla Montecatini, all'ENI ed alla stessa FIAT per le unità fuori dall'area torinese.
Anche in questi casi erano adottati modelli di welfare non riferibili però ad una città ma piuttosto a servizi sociali privatistici integrativi il modello statale spesso latitante o insufficiente.
Le prime aziende multinazionali che cominciarono ad operare in Italia, si pensi a Solvay, GE, Exxon, IBM, introdussero invece un concetto di welfare diverso, finalizzato non a sopperire alle carenze e/o esigenze del sistema ma come parte integrante di una gestione del collaboratori, per aumentarne il commitment e la retention.
Negli anni '70 abbiamo assistito ad un progressivo disimpegno da parte delle aziende anche per effetto di una politica distruttiva svolta dalle Organizzazioni Sindacali che miravano a spostare ed accollare allo Stato il welfare aziendale, portando avanti, sul posto di lavoro, una lotta impostata sulla mera “egemonia culturale”, di gramsciana memoria. (...)
Potrei terminare limitandomi a citare quanto ripeteva J.Welch, quando ricordava che in GE “HR are not in the agenda are agenda” ma vorrei ricordare anche Adriano Olivetti, che preferì mantenere per sé la delega delle Risorse Umane per confermare quanto elevata dovesse essere l'attenzione dedicata alle stesse.
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Poche righe di commento:
(1) - Mettere insieme l'esperienza di Adriano Olivetti (un caso nobile e culturalmente 'alto' di attenzione globale e 'sistemica' a persone, fabbrica, ambiente) con le altre citate (che sono di paternalismo più o meno interessatamente 'peloso') mi sembra un po' azzardato.
Così come mi pare sbrigativo il giudizio sulle organizzazioni sindacali che negli anni 70 contrastarono (a mio avviso giustamente, proprio per il paternalismo di cui sopra) le 'company town' in stile Valdagno.
(2) - Circa la citazione di Jack Welch: se la uniamo alla sua ben nota politica della valutazione delle prestazioni (contestata pure negli Usa) in base alla quale ogni anno il 10% delle 'risorse' umane, con prestazioni più basse, doveva essere 'licenziato' (fisicamente e non metaforicamente) (*), torna giusta l'espressione 'risorse'. E a questo punto poco importa se sono in agenda o sono l'agenda. Sempre strumenti restano. Strumenti 'correttamente' chiamati 'risorse'. Ma forse, alla luce anche dell'oggi sempre più usa-e-getta in Usa e fuori Usa, il termine più appropriato sarebbe quello di 'pedine' (le parole sono importanti: e qualcuno ci ha ricordato che «sono la conseguenza delle cose»).
Per questo, e non solo perché a quei tempi l'espressione non era di moda, credo che Adriano Olivetti, se si tenne sostanzialmente la delega del personale, mai chiamò le persone risorse.
Tutto ciò, per carità, senza mitizzare o santificare Adriano Olivetti.
Ma solo per non confonderlo con altri imprenditori (tipo Fiat): dai quali infatti finì isolato e ostracizzato, con l'accusa (sempre buona per la cosiddetta classe dirigente italiana) di essere un pericoloso 'comunista'.
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*** Massimo Ferrario, per Mixtura
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