Gherardo COLOMBO, Lettera a un figlio su Mani Pulite, Garzanti, 2015
pagine 94, € 10,00, ebook € 6,99
Poche pagine (meno di un centinaio, poco più di un'ora di lettura) per avere il racconto diretto, da uno dei protagonisti, di come si è sviluppata Mani Pulite negli anni 90: il primo grande tentativo italiano di reprimere la corruzione dilagante di politici e imprenditori.
Una descrizione 'semplice' e puntuale, che riafferma con pacatezza e argomenti chiari ed evidenti la giustezza delle scelte compiute, nel rispetto di leggi e procedure e senza quegli 'sconfinamenti' di cui spesso i magistrati sono stati accusati: per i quali hanno subito ispezioni a non finire, ma dalle quali sono sempre usciti indenni.
Chi ha vissuto quegli anni può rimettere in fila certi ricordi; chi è giovane ha modo di fissare alcuni fatti storici importanti e capire anche perché Mani Pulite non ha segnato quello spartiacque d'epoca che molti, all'inizio, credevano e speravano potesse essere.
In particolare, mi paiono due gli apprendimenti ricavabili da questa esperienza e ben sottolineati da Gherardo Colombo.
Il primo ci riguarda tutti: Mani Pulite è finita quando, trascorso il momento di euforia generalizzata per la 'caccia' ai potenti, ha cominciato ad allargarsi alla società civile, mostrando che l'illegalità non tocca solo 'loro', ma anche 'noi'. Allora il plauso è venuto meno e, anzi, si è diffusa la paura di essere coinvolti: il fiume di informazioni che aveva alimentato le indagini per colpire 'in alto' si è inaridito e anche questo è servito alla classe dirigente, soprattutto politica, per mettere il freno alle inchieste attraverso una legislazione, corporativamente difensiva, che le rendesse più complicate o, addirittura, 'sterilizzasse' taluni reati.
La seconda riflessione, invece, è più propriamente dell'ex magistrato, ed è la confessione di un cambio di visione, dopo una vita spesa al servizio della giustizia, sull'utilità della 'pena'. Ovviamente, nessun rifiuto della sanzione: che resta uno strumento necessario per regolare la convivenza umana. Ma la consapevolezza, senz'altro più 'piena' e chiara di quanto non fosse all'inizio della carriera, della insufficienza di questa quando si voglia 'cambiare' davvero la cultura di una società.
Mi pare che il pensiero, più che condivisibile, dell'ex-magistrato (e che ulteriormente conferma le ragioni della scelta, qualche anno fa, di abbandonare la toga) sia ben espresso in queste sue parole:
«Occorre sradicare l’idea della punizione che domina la nostra cultura, per passare all’idea che per arrivare all’effettivo riconoscimento reciproco è necessario educarci all’essere responsabilmente liberi. Si tratta di un cambiamento epocale, paragonabile a quello che ha portato all’abolizione dei supplizi e, successivamente, della pena di morte, oggi considerati tabù in gran parte del mondo. Del resto, la pena – così come il premio – educa all’obbedienza: se fai quello che ti dico ti premio, se non lo fai ti punisco, indipendentemente dalla correttezza di quel che ti dico. Può funzionare su questo presupposto la democrazia? Ritorniamo all’articolo 1 della Costituzione, secondo il quale l’Italia è una repubblica e una democrazia, e la sovranità appartiene al popolo. Come può il popolo esercitare la democrazia se è abituato a obbedire e quindi non è in grado di scegliere autonomamente e responsabilmente?»
*** Massimo Ferraio, per Mixtura
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