Milano, tempo di Expo 2015.
Si intensificano le parole d'ordine: innovazione, qualità, servizio, soddisfazione del cliente. Anzi, customer satisfaction: perché pare che in inglese, il cliente, specie se italiano, sia più soddisfatto.
Parole che ripetono ogni giorno istituzioni, politica, organizzazioni, imprese. Nei convegni, nei dibattiti, alla tv.
Tutti impettiti e così tronfiamente orgogliosi di questo tanto decantato avvenimento che probabilmente i lavori non rispetteranno la scadenza, al punto che si stanno appaltando azioni di 'copertura estetica' per i cantieri che non saranno terminati ad inaugurazione avvenuta. Per tentare di non sfigurare di fronte al mondo. Come quando si nasconde lo sporco sotto il tappeto.
E lasciamo da parte le illegalità: almeno quelle finora scoperte, perché la magistratura, per fortuna, sembra essere una delle poche realtà italiane meno sensibile all'estetica e più attenta all'etica, specie quando sconfina nei reati.
Cito un piccolo episodio di cui sono stato testimone diretto.
Tanto piccolo e banale che uno potrebbe dire che non vale la pena raccontarlo: 'con tutto quello che succede di più serio...'
Vero. Accade, a Milano e altrove, molto di più. E di ben più grave.
Però anche le cose piccole, se vogliamo ascoltarle, dicono cose grandi. Perché agiscono da cartina di tornasole e rivelano significati che sarebbe un peccato lasciar correre.
E questo che mi accingo a raccontare è uno dei tanti fatterelli (peraltro riconducibile in questo caso ad un'azienda non certo di quart'ordine), chiamati, da qualche navigato guru del management del passato, momenti della verità.
Sono momenti un cui i proclami e la propaganda vanno a zero: e l'organizzazione, pronta a ripetere ossessivamente che si fa in quattro per il cliente, si afferma nuda per ciò che è: una struttura centrata su di sé, e tanti saluti all'utente.
Sono momenti che ovviamente anche (e soprattutto) chi non è guru sa cogliere perfettamente, senza esperti che glielo insegnino. E naturalmente non prova alcuna customer satisfaction. Né in inglese né in italiano.
Ecco, allora, la breve storia.
Atm, azienda dei trasporti milanesi.
Da qualche mese l'impresa sta facendo un grande battage per pubblicizzare lo sforzo di preparazione per l'Expo: investimenti, ammodernamenti, innovazioni.
Sono di corsa, ho i minuti contati per un appuntamento.
Arrivo ai tornelli di una linea di metro. Vengo bloccato: il tornello non si apre, compare la scritta rossa (tra l'informativo e il minacciante): 'carta Atm scaduta'.
Non capisco, visto che l'ho ricaricata da pochi giorni.
Ma in effetti, nella concitazione, fraintendo. Come sempre ha ragione il 'sistema', rappresentato in questo caso dal tornello.
Il giornalaio, autorizzato a ricaricare, conferma: carta scaduta; e a lui non è concesso 'leggere' il numero di corse prepagate ancora da consumare. Mi può vendere una nuova carta, ma non può trasferire il pacchetto delle corse che è nella mia vecchia. Mi devo rivolgere ad un AtmPoint.
Il più vicino? Stazione Garibaldi.
Avrei preferito risolvere il problema con il giornalaio. Ma, si sa, il cliente, egoista, pensa solo ai suoi comodi. Comunque mi è andata bene: devo passare proprio da Garibaldi per cambiare linea di metro e proseguire.
E sono ancora più fortunato perché, giunto al gabbiotto Atm, non trovo coda.
Però l'impiegato, gentile, rimira tra le mani la carta che gli ho passato e si dice desolato. Appare anche un po' umiliato: non ha la strumentazione per fare il trasferimento sulla carta nuova delle corse già pagate e inserite nella vecchia. Il solo AtmPoint deputato a questo è quello di Piazza Duomo.
Mi vengono alla bocca moccoli che trattengo.
Anche perché il signore, cortese, non c'entra. Come sempre e come ovvio: quando le organizzazioni, al di là della cosmetica di moda, restano imprigionate nella burocrazia che trionfa sugli slogan, i singoli sono solo perdenti. Amano invece dirsi sempre vincenti i grandi manager: che pure dovrebbero essere responsabili delle disfunzioni e avrebbero il ruolo, tra l'altro, di fare i 'cani da guardia' delle coerenze, evitando che tra il dire e il fare ci sia sempre un fare schizofrenico rispetto al dire.
So che non c'è che abbozzare e, in giornata, perdere altro tempo e andare in Duomo.
Tuttavia non resisto, e anche un po' masochisticamente cerco di sublimare l'irritazione ponendo una domanda retorica: «Quindi lei mi sta dicendo che in tutta Milano, con la tecnologia di cui disponiamo nel 2015, c'è un solo punto Atm che può cliccare nel sistema e fare un'operazione cretina come quella che serve a me?».
La risposta è in un sorriso sornione e impotente. Accompagnata da un suggerimento che vuole segnalare tutta l'empatia dell'addetto allo sportello: «Se vuole, scriva una email in direzione...».
Milano, Expo 2015. Innovazione, qualità, servizio, soddisfazione del cliente.
Anzi, excuse me, dobbiamo essere internazionali: customer satisfaction.
Nulla di nuovo, per la verità. Di che mi lamento?
Solito bla-bla. A go-go.
Siamo campioni del mondo in retorica, noi italiani.
Comunque, dimenticavo, ora risolveremo tutto. Con il Jobs Act e l'abolizione dell'art. 18.
Dici che non c'entra nulla? Allora sei un gufo. Uno che frena, si lamenta sempre e non crede al futuro.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
Il momento della veritá arriva sempre quando il prodotto-servizio non é stato sviluppato sulla base delle aspettative del cliente-utente, che sono (dovrebbero essere) l' imprescindibile condizione che attraversa tutti i processi aziendali coinvolti nel perseguimento della mitica customer satisfaction, dalla pre-vendita al post-vendita, secondo i mitici dettami di un' azienda customer oriented, che fa così cool di questi tempi. La e-mail alla Direzione non serve a niente, nessuno in azienda conosce-padroneggia questi processi, semplicemente perché non sono mai stati analizzati e modellati. Ancora una volta ha ragione il buon specchio Deming: " se non si é in grado di descrivere quello che si sta facendo come un processo, non si sa cosa si sta facendo".
RispondiEliminaPaolo, parole perfette.
RispondiEliminaTu sai quanto io mi sia batutto, nel mio piccolissimo, nelle attività di consulenza/formazione che ho svolto per decenni, per far sì che le parole non restassero parole.
Perché il punto è questo: passare dal dire al fare.
E qui nessuno ha la bacchetta magica: perché il fare non ce lo 'danno' nessun manule e nessun corso di formazione. Ce lo 'diamo' noi: facendo quel che proclamiamo. Con la conoscenza del contesto, con la competenza specifica che ci abilita a fare ciò che dobbiamo fare e (soprattutto) con l'assunzione di responsabilità.
Per questo, quando sento ripetere slogan (e io stesso ogni tanto me li trovo in bocca senza accorgermene), vorrei 'metter mano alla pistola'.
Metaforicamente, si intende.