L’esperienza non si trasmette, e tanto meno lo ‘spirito rivoluzionario’, il credere. L’esperienza può essere solo diretta, non raccontata: anche se è sempre giusto e necessario raccontarla. Peraltro è noto, e documentato, quanto sia controproducente, verso le generazioni nuove e che non furono direttamente partecipi del ‘fatto’, ogni «pedagogia» rivoluzionaria. Il manualetto giacobino di storia (una specie di «Bignami») suscita fastidio; così come l’adozione del cosiddetto «marxismo-leninismo» come unica filosofia da impartire nelle scuole sovietiche. Peraltro i ‘capi’ della rivoluzione (di ogni rivoluzione) non possono che essere dogmatici: altrimenti non farebbero quella scelta di vita. Chi giudica le rivoluzioni col metro dell’ordinaria amministrazione dovrebbe cambiar mestiere, certo non occuparsi di vicende umane. (E forse neanche naturali.) E aver sempre ben chiaro che le «concezioni del mondo», in forza e in nome delle quali si «fanno le rivoluzioni», non sono che indicatori schematici, spesso radicati nell’esperienza passata (e perciò fallibili). Esse – quando sorgono – non tengono conto, in virtù del loro inevitabile schematismo (necessario per chi intenda guidare masse in movimento), dei vettori imprevedibili e delle torsioni in senso nazionale di ogni rivoluzione fattasi ‘potere’ e ‘governo’: tutti fenomeni che provengono dal «peso della storia» inerente a ciascuna realtà, a ciascun Paese. «Quasi tutte le ideologie – osservò Sir Lewis B. Namier – sopravvalutano la capacità dell’uomo di prevedere le conseguenze e le ripercussioni di ideali forzatamente applicati alla realtà». È una osservazione pertinente, ma del tutto ‘impotente’. Le rivoluzioni sono (come notava Tocqueville a proposito del 1789) eventi «inevitabili». E – aggiungiamo alla luce dell’esperienza degli ultimi due secoli – ad ogni nuova ondata, più aspre e schematiche.
*** Luciano CANFORA, La scopa di Don Abbondio. Il moto violento della storia, Laterza, 2018.
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