Appena maggiorenne D.A. ha lasciato il paesino vicino a Dakar in cui è nato: una mattina ha arrotolato le sue cose in uno zaino e si è chiuso la porta di casa dietro le spalle. Orfano di entrambi i genitori fin da bambino, è cresciuto con una donna del villaggio che si è presa cura di lui. Quando lei è morta, D.A. ha deciso di lasciare il villaggio affacciato sull’oceano Atlantico per provare a raggiungere Tripoli, cercare lavoro, guadagnare i soldi necessari per attraversare il Mediterraneo e arrivare in Europa.
A Tripoli D.A. ha vissuto per un anno, lavorando come giardiniere senza essere pagato, poi una sera è stato aggredito da un gruppo di uomini in strada, è stato sequestrato e portato in una prigione a Zawia. Della prigione ricorda soprattutto la vicinanza con i corpi dei compagni, ammassati uno accanto all’altro, e la violenza dei secondini. “Chiedevamo da bere e ci picchiavano, chiedevamo da mangiare e ci picchiavano”. Poi hanno cominciato a prenderlo a botte e a torturarlo senza motivo, per chiedere un riscatto, non credevano che fosse orfano. Così mentre lo picchiavano volevano che chiamasse la famiglia al telefono. Le torture sono durate due mesi, poi D.A. è riuscito a scappare insieme a un gruppo di compagni. “Per tre giorni abbiamo camminato per raggiungere la città più vicina, senza mangiare”, ricorda. (...)
*** Annalisa CAMILLI, giornalista, Il caso che porta in tribunale il decreto Minniti sull’immigrazione, 'internazionale.it', 14 dicembre 2017
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Centro accoglienza asilo Bologna
foto di Simone Padovani, Awakening-Getty Images
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