“Proviamo a fare un paragone tra il modo femminile e maschile di gestire il potere?”. La domanda è all’interno di un workshop di sole donne in una grande impresa.
Dopo una mezz’ora la lavagna è divisa in due parti nettamente distinte, in una la gestione al maschile del potere fatta di aspetti negativi, di ricerca del proprio interesse, di forza e competitività. Dall’altra la visione idilliaca del potere femminile, orientato al gruppo, supportivo, senza secondi fini.
E’ a questo punto che una partecipante si ribella. “Io, veramente, ho avuto due capi donne, ed erano semplicemente tremende. Non avevano nessuna delle caratteristiche che state descrivendo!”.
Le altre si fermano un momento a pensare e devono dare ragione alla loro collega. Non è vero che le donne, sia nel percorso, che ai vertici siano poi così diverse dagli uomini. L’episodio mi fa riflettere su due aspetti. Il primo è quello della difficoltà, quando si fa parte di una minoranza, in qualche modo discriminata, a ritrovare una sorta di unità.
Mi spiego meglio: noi donne siamo uguali quando il nostro percorso di carriera viene ostacolato in modo più o meno sottile. Ci guardiamo intorno e troviamo una sorta di solidarietà tra coloro che devono affrontare un sentiero più faticoso e insidioso. Ma dopo questo momento di “uguaglianza”, emergono le differenze. Siamo diverse dal punto di vista professionale, nelle modalità di rapporto con l’organizzazione, nei valori di cui siamo portatrici.
Per questo non ho mai creduto nella “solidarietà” femminile. Un sentimento come la solidarietà voglio riservarmi di darlo a chi decido, non a tutto un gruppo, come le donne, in generale.
Anche perché, come diceva la partecipante, ci sono donne e donne!
E’ difficile, allora, mantenere questo equilibrio tra l’affrontare gli aspetti discriminanti insieme, in modo da tentare di cambiare dei meccanismi consolidati, eppure continuare ad avere una capacità critica, che ci permetta di prendere le distanze dalle modalità di fare carriera legate, ad esempio, alla seduzione e alla dimensione relazionale.
Il secondo aspetto riguarda la difficoltà a mantenere un sguardo femminile, che io sono sicura esista, sui meccanismi organizzativi e di gestione del potere. Quando c’è un’unica modalità imperante, coloro che fanno carriera generalmente vi si adeguano. O forse è vero anche il contrario: vengono selezionate le persone, uomini o donne, che sono coerenti con questo stile e che lo supportino completamente.
Probabilmente, al di là di essere uomini o donne, le organizzazioni tendono ad emarginare il pensiero critico, con buona pace del tanto auspicato cambiamento. E questo è un tema di grande rilevanza circa l’autoconservazione di modalità consuete, che non vengono mai sottoposta a revisione. E torniamo al potere maschile, che privilegia gli uguali e non consente alle diversità, donne comprese, di arrivare lassù.
L’unica speranza è che i percorsi di riflessione, come quello da cui sono partita, servano a dare la capacità alle donne di trovare strade nuove, cambiando anche profondamente, il contesto in cui operano.
*** Maria Cristina BOMBELLI, consulente, saggista, Ma poi, arrivate al vertice, quanto siamo diverse dagli uomini?, jobtalk, 10 giugno 2008, qui
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