Dire che un attacco missilistico è "una reazione a un crimine di guerra" è, a mio avviso, un'uscita piuttosto infelice che contiene due generi di problemi.
Il primo problema è di tipo logistico, o di buon senso: è tutto da dimostrare che sganciare un centinaio di milioni di dollari di missili in una notte abbia prodotto un qualche effetto positivo per la sicurezza dei cittadini siriani; in genere - la storia di questi anni lo dimostra - lo strumento guerra ci porta solo a un aumento della stessa violenza.
Il secondo problema è di genere filosofico e riguarda l'ambito "giustificatorio" in cui, volenti o nolenti, un'affermazione del genere ci spinge, l'ambito della "comprensibile reazione".
Il problema qui è che, se si sdoganano le "comprensibili reazioni", allora vale per tutti: chi è testimone o vittima di un crimine di guerra "a casa loro" (il bombardamento di un ospedale? di un villaggio pieno di civili? di una festa di matrimonio o di un qualsiasi "danno collaterale"?) o chi ritiene di esserne vittima potrebbe o dovrebbe legittimamente "reagire" - con le armi a sua disposizione, che non saranno missili ma magari autobombe - contro lo Stato che di quei crimini è responsabile?
Ecco, io preferirei di no. Quindi cerco di tenermi ben lontana da ogni affermazione che rischia di portare il discorso sotto l'ombrello velenoso della "guerra giusta".
*** Cecilia STRADA, presidente di Emergency, 'facebook', 8 aprile 2017, qui
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