È opinione diffusa che un’attività intellettuale e un’abitudine a studiare, proseguite anche in età avanzata, rappresentino fattori che riducono il rischio di contrarre la malattia di Alzheimer o di altre forme d’involuzione intellettiva senile. Poiché queste abitudini a pensare e concentrarsi divengono costanti e consolidate solo se iniziate in età precoce, si può dire che la prevenzione dell’Alzheimer e del decadimento senile inizi già in età scolare.
Anche a questo proposito, qualcuno propone la necessità di reintrodurre lo studio a memoria (delle tabelline, delle regole grammaticali, di date e nomi di personaggi storici, di poesie).
Ciò è, in parte, condivisibile (senza bisogno di scomodare la neurobiologia, basterebbe ricordare Cicerone: “Memoria minuitur nisi exerceas”). Tuttavia, il puro e semplice esercizio mnemonico non basta: tutti abbiamo avuto esperienza di nozioni apprese a memoria per pure esigenze scolastiche e senza che, per esse, nutrissimo alcun interesse; o senza che insegnanti e famigliari ci avessero aiutato a nutrirne. Queste nozioni, appena preso il “bel voto”, vengono prontamente dimenticate. In più, esse non ci stimolano a proseguire studi e letture dopo preso il diploma. L’esigenza prioritaria, perciò, è quella di risvegliare interesse per il sapere; lo studio a memoria ne viene enormemente facilitato e può avere un senso. Un insegnante che si limitasse ad imporre lo studio a memoria, senza legare l’apprendimento alle emozioni spontanee degli allievi (così vive in età infantile e adolescenziale), sarebbe un pessimo insegnante.
*** Bino AG NANNI, psichiatra, 'facebook', 9 febbraio 2017
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