giovedì 8 dicembre 2016

#SPILLI / Cambiamento, noi professionisti 'esperti' e il caso Renzi (M. Ferrario)

Stavolta vorrei lasciare Matteo Renzi, e la sua disfatta referendaria, sullo sfondo, perché intendo parlare del mondo dei professionisti che si occupano di sviluppo organizzativo (comprendente la formazione e lo sviluppo delle persone) e dunque, spesso, prestano consulenza cruciale nei processi di cambiamento realizzati nelle imprese, o comunque nelle diverse realtà di lavoro. 
Ho bazzicato quel campo per quarant'anni e da poco ne sono fuori. Potrei dire 'per mia fortuna', pensando a taluni vizi culturali di molti protagonisti, a certe visioni ristrette e poco orientate al futuro di troppe imprese e alla tanta schizofrenia tra proclami e fatti contro cui ho dovuto 'lottare', ma mentirei nella sostanza, perché è stato un mestiere, il mio di consulente e formatore, che ho svolto con determinazione e passione, con un mio tratto (riconosciuto) abbastanza 'fuori dal coro' e anche con un certo apprezzamento, almeno stando alle valutazioni date dagli interessati sui risultati conseguiti nei progetti che ho seguìto.

Che cosa c'entra Renzi con il mio (ex) ambiente professionale?
Moltissimo. E lo spiego subito.

Di recente, prima del referendum costituzionale che si è rivelato uno tsunami per i sostenitori del Sì, ho avuto molte discussioni con parecchi colleghi. 
Non ho dati per tirare conclusioni generali, ma sicuramente posso dire che la maggior parte di loro (tanti) erano non solo favorevoli al cambiamento proposto da Renzi con la riforma costituzionale (fatta diventare simbolo-madre di ogni cambiamento), ma sostenitori, anche accaniti, di Renzi stesso: del suo stile e del suo approccio considerato 'innovatore'.
Potrei usare, al posto dell'imperfetto, il presente indicativo, perché anche ora, a votazioni avvenute, dopo il feedback che è stato una 'mattonata nei denti' per il loro personaggio di riferimento (pure se da alcuni votato con qualche naso turato), mi sembra non abbiano cambiato opinione: segno, questo, se vogliamo, di una coerenza encomiabile, non sempre rintracciabile in Italia, vista la velocità con cui ci si riposiziona sul carro del vincitore e si abbandonano i perdenti. Ma segno anche di una incrollabile e granitica 'fede', che poco si concilia con quella razionalità e con quella capacità pragmatica di leggere i fatti per quello che sono, di cui spesso noi, nel nostro piccolo mondo, ci vantiamo.
Posso affermare questo perché con alcuni di loro ho avuto occasione di riparlare e di altri ho letto le reazioni, tra il disgustato e l'accorato, su alcuni social network: dove si sono sprecate le lamentele per un'Italia che non ha saputo cogliere la 'grande l'occasione di un cambiamento epocale' e si 'proiettavano' le ragioni della disfatta sul 'populismo/fascismo montante anche nel nostro Paese' o comunque sulla 'arretratezza di conservatori novecenteschi irriducibilmente amanti del pantano'.

Ripeto: non è un test con valore scientifico (sempre che esistano test di questo tipo). Ma a me è stato sufficiente per farmi pensare. Come mai persone intelligenti, dotate di strumenti culturali spesso pure raffinati, esperte di problematiche di cambiamento e pure consulenti/formatori in questo campo, non hanno capito per tempo che Renzi, come 'agente di cambiamento' (per recuperare un'espressione dei miei tempi preistorici) era evidente che 'toppasse', prima o poi, come alla fine è accaduto, se non avesse cambiato le sue modalità di approccio alla realtà?

E' sempre poco elegante, e anche un po' volgare, citare se stessi. Ma lo faccio per segnalare che nell'ottobre del 2014 anch'io commisi un errore.

In due tweet del 2014 (oltre due anni fa), a pochi mesi dall'insediamento di Renzi al governo, scrivevo: «Quando la determinazione diventa ostinazione testarda, ostentata e arrogante, il finale è un muro. Ci si sbatte.» (twitter, 24 luglio 2014).
E poi: «Crearsi un muro e andargli a sbattere contro. Per poi dire che è colpa del muro. Come l'emozione (cretina) di correre di notte a fari spenti» (twitter, 7 ottobre 2014).

Come si capisce, il mio errore non sta nell'aver immaginato un muro contro cui il nostro sedicente premier per me sarebbe andato sicuramente a sbattere, ma nell'aver creduto (nei due tweet non è esplicitato, ma nelle chiacchiere del tempo ne ero convinto e lo ripetevo con chiunque) che il muro fosse prossimo: questione di mesi. Per come è andata la realtà dei fatti, sbagliavo la tempistica: ci sono voluti oltre due anni perché quel muro mettesse fine al progetto di cambiamento.
Certo, in un 'processo', appunto perché un 'divenire' non è un 'evento', sono sempre possibili correzioni di tiro in corso d'opera. Ma, almeno a me, appariva scontato che nessun tiro, dato il personaggio che proclamava il cambiamento con quell'orgoglio narcisista e arrogante che già allora era la sua cifra caratteriale inconfondibile, sarebbe stato corretto.
Forse gli italiani sono un po' lenti nel cogliere quanto sta per accadergli: vent'anni per capire Berlusconi, 1000 giorni per capire Renzi. Ma alla fine, anche gli italiani ci arrivano:  e in entrambi i casi il finale era scritto dall'inizio.

Da parte mia, quindi, nessuna particolare preveggenza: basta(va) mettere in fila, in un ordine banalmente logico, tutti gli elementi che, nelle 'teorie pratiche' (e noi professionisti dovremmo conoscerle) favoriscono un cambiamento, oppure lo fanno fallire, e si sarebbe arrivati alle conclusioni cui si è giunti con il voto del No.

'Change' e 'Changing' - Sempre nei miei anni preistorici (anni 70 dell'altro secolo) la letteratura anglosassone aveva due termini per indicare cambiamento: uno era change e l'altro era changing. Una distinzione preziosa, andata persa, ma che andrebbe recuperata anche per questo secolo. 

Non c'è bisogno di conoscere l'inglese per cogliere la differenza, qui volutamente giocata mettendo i due termini in contrapposizione.
Change sta per cambiamento che 'casca addosso': di tipo 'top-down', senza possibilità di partecipazione dei soggetti interessati, o con una partecipazione puramente informativa, che di fatto li rende oggetti.
Changing invece evoca un 'processo' che 'si compie durante', con il coinvolgimento e l'ingaggio dei soggetti su cui il cambiamento stesso andrà a impattare, in modo che il risultato sia il più possibile condiviso, per azioni e contenuti, e quindi abbia maggiori probabilità di essere raggiunto. 

Pur senza una particolare intelligenza, o competenza, si capisce che il primo cambiamento, di tipo change, sostanzialmente imposto, può andare in porto se accompagnato dalla 'forza', più o meno di stampo militaresco, o da quella 'dolce persuasione'  che solo la 'manipolazione' può fornire. Al di là di qualunque considerazione eticheggiante e al di fuori di visioni più o meno 'democraticheggianti', è evidente che 'forza' e 'manipolazione' si possono usare a condizione di mantenere un clima di continuo e pesante condizionamento. Ambedue, forza e manipolazione, durano finché durano: cioè finché i (s)oggetti interessati sono obbligati a esserne vittime. Poi, appena possono sfuggire al condizionamento imposto, magari anche perché prendono coscienza di essere stati 'usati', gli 'oggetti' ridiventano 'soggetti' e reagiscono 'contro' il cambiamento, realizzato o in corso d'opera, rimuovendolo o bloccandolo, e, quando possono, rivoltandosi contro chi gliel'ha imposto.

Ben diverso è il caso di un cambiamento condotto in stile changing: più a misura degli interessati perché loro stessi se lo sono il più possibile adattati, partecipandovi in qualche modo, dopo averne accettato e condiviso finalità generali, obiettivi specifici, contenuti, azioni.

Certo, le due modalità indicano due 'modelli': inesistenti 'in natura' come è per tutti i modelli, i quali per definizione, nella realtà, possono solo essere 'approssimati'.
Ma i due 'idealtipi', se li teniamo presenti, sono in grado di farci da guida di massima per avviare, pilotare, governare un cambiamento e non farlo miseramente fallire. O per valutare, da fuori, se un processo di cambiamento ha probabilità di riuscita, oppure è destinato, prima o poi, a ignominiosamente fare fiasco: almeno in mancanza di carriarmati in piazza, che 'persuadano' a chinare la testa e a dire di sì, o fino a quando non si scopre che certi 'bonus' elargiti sono come le caramelle date ai bambini per rabbonirli.
I 'fondamentali' per mettere in atto un cambiamento che abbia le maggiori probabilità di successo comprendono ben altro, in chiave di metodologie e stili di comportamento richiesti. E gli esperti (quelli veri) lo sanno. Ma la distinzione, banale, tracciata qui sopra potrebbe bastare per avere qualche prima idea capace di valutare come le cose andranno a finire.

Alla luce di quanto sopra, pare indubbio che si poteva (si doveva) prevedere l'esito del referendum del 4 dicembre: avendo privilegiato la modalità change, all'orizzonte si sarebbe eretto, presto o tardi, un muro, tra l'altro sempre più massiccio e svettante col trascorrere del tempo, e, appena possibile, le persone (in questo caso, i cittadini) avrebbero detto no e fatto 'saltare', anche con soddisfazione liberatoria, cambiamento immaginato e suo autore.

Ripeto ancora la domanda: perché, specie in un mondo di persone che si dicono esperte di cambiamento, non si è capito (e ancora troppi non capiscono) che, se tutto è finito come è finito, è stato per la 'normale' (prevedibile, certa, sicura) resistenza/opposizione di chi si è sentito trattato da oggetto, avendo 'ricevuto addosso' un cambiamento su cui non ha potuto dire/fare nulla?

Tre miti devianti e un vizio culturaleProvo a immaginare alcune riposte, tra le molte altre possibili.
Riguardano 3 miti e 1 grave difetto culturale: quattro fattori sempre più montanti nel mio ex mondo professionale e sempre più nefastamente attivi anche perché combinati in sinergia tra loro: 
* il mito del 'cambiamento-sempre-comunque', 
* il mito della 'azione-sempre-comunque
* il mito della 'onnipotenza della passione/energia'
* la cultura della 'sudditanza/conformismo'.

(1) - Il cambiamento sempre comunque - E' un mito che si riassume nella convinzione che 'cambiamento è bello', indipendentemente dal contenuto della scatola. Si declina almeno lungo queste tre credenze: 'è sempre, per definizione, avanzamento'; 'è nella natura delle cose'; 'chi si oppone è un retrogrado'. Noi professionisti siamo cresciuti in questo credo. E, del resto, il cambiamento, per chi fa consulenza e formazione su questo tema, si traduce pure in fatturazione: ulteriore motivo, assai concreto e convincente, per dire di sì alle proposte di cambiamento della committenza e fare di tutto per indirizzarle a buon fine, anche al di là della loro effettiva utilità per i soggetti su cui i processi impattano. Intendiamoci: spesso cambiamento è 'cosa buona e giusta e fonte di sviluppo', e, tra l'altro, in passato così è stato molte volte (e non solo nelle imprese: pure nella società). Ma 'molte volte' non significa 'sempre', perché talvolta cambiamento è cosa 'oggettivamente' negativa (non 'progressiva', ma 'regressiva') e la resistenza, in questo caso, è ancora più giusta e sana di quella che comunque si accompagna ad ogni mutamento, sempre faticoso, di uno stato delle cose che ci riguarda. Per capire se siamo di fronte a un cambiamento 'buono' o 'cattivo', bisognerebbe aprire la scatola e guardarci dentro, esercitando 'pensiero critico', magari anche 'contro' una committenza che chiede di non andare oltre il fiocco del packaging: un packaging che oggi ha raggiunto punte di attenzione estetica ieri sconosciute e che è capace di sedurre, di per sé, molti compratori. Ma non aprire la scatola e non mettere in discussione ciò che vi è dentro rimanda a un vizio culturale, diffuso ovunque e pure tra chi dovrebbe esserne più consapevole per il mestiere svolto, del quale dirò al punto 4.

(2) - L'azione sempre comunque - Nel nostro ambiente (le convention, la formazione, le carte aziendali, le 'vision'...), le parole prevalgono sull'azione. Il consulente, poi, sia che sia interno (in posizione di staff) sia che operi dall'esterno, per definizione è impedito dall'agire: aiuta, prepara il campo, facilita (se ci riesce), ma il compito del fare è responsabilità altrui. E questo, tra l'altro, contribuisce a generare una frustrazione che fa desiderare/invidiare, ancora di più, il tempo dell'azione, visto come fase finalmente 'eroica' in cui le cose escono dal 'blabla' e si realizzano. Dunque, i tipi-Renzi, con la loro carica di effervescenza e tonicità, il loro look manageriale alla moda infarcito di inglese malparlato ma suadente e il richiamo ossessivo (compulsivo) al 'fare-fare-fare' contro chi 'parla sempre e non fa mai nulla', hanno tutto per essere idealizzati: e quando una persona diventa un ideale, ci si inchina e la si segue con fideistica passione, mettendo da parte ogni razionalità critica. E le panzane e le patacche, anche quando distribuite a iosa, non vengono viste, o se vengono viste vengono minimizzate ('ma, in fondo, così fanno tutti').

(3) - L'onnipotenza della passione/energia - Un certo sfondo psicologistico, operante anche in chi non ha precise competenze psicologiche, taglia orizzontalmente la consulenza, anche quella più 'hard', centrata su contenuti forti e concreti. Chi poi si occupa professionalmente di cambiamento, un'area di per sé 'soft' nonostante i possibili effetti quanto mai 'hard', ne è intriso da sempre, anche da prima che i due termini, passione ed energia, diventassero materia prima di tutti i 'coach' che oggi imperversano: il loro 'pensiero positivo', che vuole ridurre ogni complessità della realtà (sociale, politica, economica) vendendo soluzioni, anche miracolistiche, affidate alla capacità di produrre empowerment, negli altri, e self-empowerment, in se stessi, ha un fascino irresistibile. E la seduzione si compie in automatico: basta vedere una persona che pronuncia ad ogni pie' sospinto le parole 'up-to-date' della retorica manageriale corrente (l'inglese, naturalmente, è d'obbligo), proclamando un futuro roseo e progressivo sicuramente 'nostro' purché ci si creda e si investa passione ed energia per ottenerlo, e il gioco è fatto: mettiamo subito il like di facebook.

(4) - Sudditanza/conformismo - Sudditanza e conformismo non sono certo monopolio del mio (ex) ambiente professionale. Ma in queste note il fuoco vuole restare puntato su di noi: e qui la consulenza non è certo seconda, nell'ossequio al potere, rispetto ad altre professioni e, più in generale, rispetto al cittadino comune italiano. Non c'è bisogno di spendere molte parole: negli anni 70 (lo so, mostro gli anni che ho...) il 'peccato' dei consulenti/formatori era la collusione, anti-sistema, con la 'base della piramide aziendale': qualcuno sognava, anche nelle aule, la 'rivoluzione', in sintonia con il clima ideologico del momento storico. Oggi, ma da parecchi anni ormai, accade il contrario: la collusione è sempre e comunque con i vertici, quasi che per definizione la committenza-cliente abbia sempre ragione. Mai osare porre un dubbio, mai tentare di mettere in discussione, mai provare un'analisi dei bisogni e smontare la richiesta. No: la richiesta diventa automaticamente 'il' bisogno. E si attacca il carro dove vuole il committente. Così l'approccio changing non si sa più cosa sia e prevale, anche nei titoli degli organigrammi, il 'change management'. Dominio della tecnica ed efficacia/efficienza (più la seconda della prima, e, naturalmente, ambedue declinate solo in chiave economicistica) sono le linee guida. Le persone, non a caso da anni chiamate risorse e oggi ulteriormente regredite a pedine, sono 'funzionali-a': conta il progetto tecnocratico espresso dalla volontà, insindacabile, del vertice. Certo: poi ci sono le parole delle convention che ammorbidiscono il tutto. Ma questo rientra nella logica appunto del change, quando si ricorre a dosi più o meno massicce di manipolazione per 'far cadere addosso' quello che si vuole, nel modo in cui si vuole. Spesso, con il contributo attivo (e se inconsapevole è ancora peggio) della consulenza: che diventa semplice ancella operativa di una visione tecnocratica che con la tecnica e l'economia ritene di risolvere tutto.

In sintesi.
Per ragioni di spazio, sono stato più netto e drastico di come è mia abitudine. Ma chi legge può smussare e addolcire, sfumando certe asprezze che servono anche come provocazione.
I punti toccati non esauriscono, ovviamente, i problemi che continuo a pensare interessino pericolosamente un ambiente professionale al quale, anche da 'ex', mi sento tuttora empaticamente vicino.

Tuttavia, se queste righe hanno prodotto magari anche un po' di 'sana' irritazione, ma soprattutto qualche riflessione (il che non significa, ovviamente, totale consenso, ma se mai 'dissenso ragionato' rispetto al mio pensiero), il mio obiettivo è stato raggiunto: perché l'intenzione non era certo quella di attaccare, scioccamente, i tanti colleghi che conosco. Molti di loro sono amici e, per quanto mi riguarda, continuo a considerarli tali, nonostante una contrapposizione di visione: perché so che il loro sforzo intellettuale per capire la realtà è sincero, anche se conduce a conclusioni che non sono le mie.

*** Massimo FERRARIO, Cambiamento, noi professionisti 'esperti' e il caso Renzi, per Mixtura

In tema di change e changing vedi anche:
(a) - Massimo Ferrario, testo riadattato da Massimo Ferrario, Ricerca Aidp-Astraricerche, 2013. Modelli di Cultura Gestionale delle Imprese: un commento e qualche nota sul ‘che fare’, qui.
Anche in ‘Impresa Diversa’, LinkedIn, 20 maggio 2013 e in 'Officine Einstein', 20 aprile 2014
(b) - Massimo Ferrario, Basta 'change management': anche in politica, 'Mixtura', 1 giugno 2015, qui

Su Renzi, segnalo anche il recentissimo:
* Massimo Ferrario, La falsa teoria 'Renzi-1 e Renzi-2', 'Mixtura', 6 dicembre 2016, qui

2 commenti:

  1. È antipatico parlare di sé ma quando nel 1996 ho dato vita ad evolve, ho scelto questo nome perché ero stanco dell’abuso che si faceva del termine cambiamento.
    Ero stanco nel 1996 figuriamoci oggi…

    Trovo pertinente lo sguardo che hai proposto al mondo organizzativo e alla consulenza perché non ho mai condiviso il confine che molti vogliono mettere fra la vita organizzativa e quella extra organizzativa, come se non appartenessero al medesimo contenitore.

    Io non ho trovato alcun elemento di cambiamento né nel SI né nel NO al referendum.
    Non ho votato SI perché questa “riforma” aveva un punto così debole (ulteriore indebolimento del ruolo degli elettori) da non farmi bastare quelli che consideravo accettabili.
    Non ho votato NO perché l’idea di una votazione contro Renzi mi faceva ribrezzo e gran parte dei NO aveva questa come ragione prevalente.
    Mi definisco cattolico e di sinistra e sono un “proporzionalista”, conosco quindi il significato di ambivalenza (che è un elemento della laicità e della complessità) ma ho scoperto di riuscire a fare sintesi (che poi sarebbe il compito della politica…) più spesso e più facilmente di quanto non si creda (nei pochi casi in cui non mi riesce opto per il Vangelo).

    Il concetto di cambiamento viene usato spesso per dopare la comunicazione e la proposta che si fa, come se ci fosse il cambiamento o l’immobilismo.
    Io credo nell’evoluzione inarrestabile e non credo che sia possibile stare immobili.
    Anche lo stare fermi può essere evolutivo e innovativo (parlo da nevrotico, so quel che dico…).
    Il SI e il NO mi sono sembrate entrambe proposte evolutive, certo con direzioni e spessori diversi: “SI a me” e “Renzi a casa” hanno bisogno dei decimali per essere misurati.

    Identificarsi con il leader (altra parola insopportabile) può permettere alle Persone di sentirsi “changing” anche se stanno solamente “change” (dunque stanno realizzando il "changing" di qualcun altro…), questo dobbiamo accettarlo perché comunque anche il seguace entra nella relazione con il proponente creando leadership (come fenomeno).
    Mi schifa che questa dinamica, che potrebbe essere trasparente e legittima, debba invece essere inquinata dalla manipolazione reciproca.

    È esattamente quello che considero intollerabile della vita organizzativa: il dover complicarsi la vita per fingere di fare una cosa che non serve anziché imparare a fare bene ciò che servirebbe.

    Un rapporto può nascere e resistere efficacemente se fondato su bisogni reciproci e complementari, raramente se fondato su menzogne, finzioni, falsi sé…

    Non mi sorprende che molti, anche in ambito consulenziale, risentano del fascino psicotropo della parola cambiamento ma questo forse dipende dalla stima che nutro per molti della categoria…

    Appena riprenderà a funzionare Pulse, arriverà la 1a di una serie di anticipazioni relative ad un evento sul Cambiamento che faremo il 24/3/17.
    Ad accompagnare queste uscite ci saranno alcuni commenti di Persone che hanno partecipato alle edizioni precedenti.
    Spero che facciano capire cosa intendiamo noi per Cambiamento.
    Tema straordinariamente affascinante, se solo non continuassero a violentarlo per vendere fuffa…

    Grazie per l’ospitalità e buona Immacolata.
    Stefano Facheris

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  2. Stefano, davvero grazie per il tuo lungo (articolato e interessante) commento.
    Difficile per me commentare qui: certi scambi su argomenti complessi richiedono il faccia a faccia. Posso solo dire che, come prevedevo, abbiamo molti punti in comune. Sul voto, invece, e quindi sulle ragioni che per me 'doverosamente' spingevano ad un NO grande come un palazzo, la pensiamo diversamente. Ma non è, naturalmente, un 'problema...:-)
    Ancora grazie.

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