martedì 6 settembre 2016

#QUARTAdiCOPERTINA / "In te mi specchio. Per una scienza dell'empatia", di Giacomo Rizzolatti e Antonio Gnoli

Giacomo RIZZOLATTI e Antonio GNOLI, "In te mi specchio.
Per una scienza dell'empatia"
Rizzoli, 2016
pagine 115, ebook € 9,99

Testo di presentazione dell'Editore - Citazioni scelte da Mixtura

Perché comprendiamo le azioni di chi ci sta di fronte? Perché altre volte no? Siamo progettati biologicamente per essere soli o per stare con gli altri? 
Negli ultimi anni un gruppo di scienziati ha rivoluzionato gli studi sul cervello e può darci le risposte più convincenti a queste domande. Giacomo Rizzolatti è il più noto tra loro, per la scoperta di un tipo particolare di cellule, i neuroni specchio, dotate della caratteristica di attivarsi sia quando osserviamo un’azione sia quando la compiamo noi stessi. Insomma, sono i neuroni dell’empatia. Trovano così spiegazione molti dei nostri comportamenti individuali e sociali, e si trasforma il nostro modo di intendere percezione, azione e linguaggio.
Secondo alcuni, la scoperta dei neuroni specchio ha rivoluzionato l’idea che abbiamo della mente umana “come il Dna ha rivoluzionato la biologia”. Secondo altri si azzererebbe la differenza tra ragione ed emozioni.
In questo libro si sfatano molti luoghi comuni e si affrontano sia gli aspetti filosofici e sociali della scoperta sia le grandi prospettive cliniche che i neuroni specchio lasciano intravedere nella cura della malattia più misteriosa di tutte: l’autismo.
Forse una nuova stagione si apre, dopo quella dell’homo homini lupus: ora la scienza ci dice che siamo biologicamente costruiti per stare insieme agli altri, per provare le stesse emozioni degli altri.


«
L’apprendimento richiede tempo. Lo sviluppo di un organo, il suo crescere dentro una funzione, esige educazione e allenamento. Tutto questo accade perché, diversamente dagli altri primati, nasciamo in ritardo, con una velocità di maturazione molto minore rispetto ad altre specie. Ricordo che negli anni Trenta uno scienziato olandese, Louis Bolk, aprì una strada fino ad allora ignorata circa l’importanza della crescita, facendo ruotare le sue riflessioni intorno al concetto di lentezza. 
Bolk cercò di dimostrare, e aveva ragione, che lo sviluppo dell’organismo umano – «ominazione» in linguaggio scientifico – procede con un grado di lentezza che non si riscontra in altri primati. 
Diversamente dal darwinismo, che attribuisce un’importanza fondamentale per l’evoluzione dell’uomo ai fattori esterni (ipotesi dell’adattamento), Bolk pone tutta l’attenzione sui caratteri interni dell’organismo. Non si chiede come e quando abbia avuto luogo l’origine dell’uomo, ma qual è l’essenza della forma umana: «In che cosa il bios umano è essenzialmente diverso da quello delle altre forme animali e affini?». La risposta può discendere solo da un’analisi che prenda in esame fattori endogeni alla natura umana, primo fra tutti il feto. A questo riguardo, dopo aver notato una somiglianza iniziale tra il feto di una scimmia e quello di un uomo, Bolk si concentra sul modo in cui i feti si differenziano nel loro sviluppo. Rileva che, mentre negli altri primati la forma iniziale del feto viene quasi immediatamente abbandonata, nell’uomo tende alla conservazione. L’uomo, in altre parole, è segnato dal ritardo dello sviluppo. È come se crescesse con il freno a mano tirato. Scrive Bolk: «Non esiste un mammifero che cresce così lentamente come l’uomo, né uno che diventa adulto dopo così tanto tempo dal giorno della nascita». 
Lo sviluppo dell’essere umano procede effettivamente con grande lentezza: lunga durata della fase intrauterina, dentatura ritardata (il primo molare compare all’incirca a cinque anni) e soprattutto enorme ritardo nel raggiungere un’autonomia di vita dai genitori. Questa si ottiene solo dopo l’adolescenza. Il ritardo dello sviluppo è responsabile di quello che Bolk chiama la «fetalizzazione della forma». (Giacomo Rizzolatti e Antonio Gnoli, "In te mi specchio. Per una scienza dell'empatia", Rizzoli, 2016)

Non riduco affatto il nostro comportamento al dato biologico. Nasciamo con un meccanismo che fondamentalmente ci predispone a far parte di una società, e quindi ad avere empatia verso gli altri. Poi interviene la cultura. 
Questa è la tua tesi sull’empatia? 
Sì. A me non dispiace sapere che nasciamo con un atteggiamento positivo verso gli altri. Non siamo affatto delle carogne. A scanso di equivoci, non sto sostenendo la tesi alla Rousseau, per cui l’uomo nasce buono e la società lo travia. Noi veniamo al mondo con delle predisposizioni fondamentalmente positive verso gli altri, ma poi deve essere la società a modularle. Se davanti a un ascensore vedi un cartello con sopra scritto «guasto», non sali, no? Hai fiducia in chi lo ha scritto. Non pensi che sia uno scherzo. Ecco, la fiducia è alla base delle nostre scelte. Può diventare conformismo, o peggio ancora ottusità. Ma all’inizio è una risorsa biologica magnifica. È un modo diverso di chiamare l’empatia. Mi fido di te. Tu ti fidi di me. So che posso imitarti o essere imitato. È la nascita del consorzio umano. Delle relazioni tra esseri umani. La vasta tessitura dell’umano. (Giacomo Rizzolatti e Antonio Gnoli, "In te mi specchio. Per una scienza dell'empatia", Rizzoli, 2016)
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